C’è una poesia breve, luminosa e misteriosa che si trova nascosta tra le pagine dei Canti di Castelvecchio, e porta con sé tutto il peso e la grazia del silenzio. È il Canto VIII della raccolta, composto il 10 agosto 1899, e in poco più di dieci versi riesce a restituire una scena quasi metafisica: un uomo fermo sull’orlo di un lago di montagna, immerso nella notte e nella luna, mentre la sua ombra si riflette e si culla tra le acque.
Questa lirica di Giovanni Pascoli è un piccolo capolavoro di sospensione e ambiguità, dove l’enigma dell’identità si intreccia con quello della natura. Un quadro notturno, perfettamente pascoliano, che unisce impressione visiva, inquietudine simbolica e musicalità rarefatta.
Canto VIII di Giovanni Pascoli
Su l’orlo d’un lago nei monti,
fra stridulo ansare di grilli,
sul lago in cui, luna che monti,
scintilli,
c’è un nero, c’è un mucchiodi squallidi cenci e di membra,
c’è un uomo con gli occhi rivolti
nel lago, e che attonito sembra
che ascolti
l’eterno risucchio:
e simile a sogno di nulla,
nell’acqua c’è l’ombra sua bruna,
che appena si dondola e culla
nel lume di luna.
Il significato di questa poesia
Un’atmosfera cinematografica
Il Canto VIII si apre come un incipit cinematografico: “Su l’orlo d’un lago nei monti”. Il paesaggio è montano, crepuscolare, immerso in un’atmosfera sonora creata dal “stridulo ansare di grilli”.
Già qui, Pascoli attiva due sensi: la vista e l’udito. L’ansare è un verbo inaspettato per dei grilli: evoca fatica, affanno, quasi un respiro spezzato della natura. E poi la luce, quella della luna che “monta” — verbo insolito e arcaico per indicare il suo sorgere — e che “scintilla” sul lago.
La scena è immersa in una sospensione liquida e lunare, dove ogni elemento naturale pare animarsi e trasformarsi in stato d’animo.
L’uomo: corpo o assenza?
All’improvviso, lo sguardo del poeta si stringe su un dettaglio dissonante: “c’è un nero, c’è un mucchio / di squallidi cenci e di membra”. Un uomo è accovacciato o forse disteso: è solo un “mucchio”, una massa informe che si confonde con i suoi stracci.
Non ha nome, non ha volto: è una presenza spoglia, descritta per negazione. Eppure, ha gli occhi rivolti al lago, e sembra “che ascolti / l’eterno risucchio”.
Qui Giovanni Pascoli introduce uno dei nuclei più potenti della lirica: il rapporto tra uomo e abisso. Il lago non è solo uno specchio d’acqua, ma un pozzo sonoro, un richiamo oscuro che risucchia silenziosamente — forse la voce del nulla, forse la voce della morte. L’uomo non agisce, non parla: ascolta. È un testimone immobile, o forse già altrove.
L’ombra sull’acqua
Nella terza strofa il Canto VIII scivola verso una dimensione onirica. L’uomo è ormai un riflesso: e simile a sogno di nulla, nell’acqua c’è l’ombra sua bruna, che appena si dondola e culla nel lume di luna.
La sua ombra “simile a sogno di nulla” è un’immagine vertiginosa. Siamo al culmine del simbolismo pascoliano: l’ombra come metafora dell’identità, del sé che si riflette nel mondo senza mai afferrarlo davvero.
L’ombra bruna si culla sull’acqua, dondola nel chiarore lunare — è un ritmo lieve, infantile, eppure struggente. Il tono si fa crepuscolare e smaterializzato: l’identità si frantuma nella rifrazione, il corpo si dissolve in sogno, in un’assenza che non fa rumore.
In questa culla riflessa, l’essere si allontana dalla coscienza per farsi immagine fluttuante, rievocando l’idea pascoliana della vita come percezione fuggevole, di stampo quasi decadente.
Il simbolismo
Come spesso accade nelle opere di Giovanni Pascoli, la poesia è carica di simboli: la luna come luce interiore e trascendente, il lago come specchio dell’anima o come confine tra vita e morte, il grillo come respiro della natura notturna. Ma è l’ombra il vero cuore pulsante del componimento.
Essa rappresenta l’essere ridotto all’essenziale, alla traccia minima, eppure incancellabile. Pascoli, poeta del “fanciullino”, osserva il mondo con occhi che colgono il mistero nel dettaglio più minimo. E in questa scena costruita come un’istantanea sospesa — fatta di riflessi, tremori, silenzi — ci racconta la fragilità dell’uomo e il suo legame profondo con la natura e il tempo.
Una poesia che interroga
Il Canto VIII, forse meno noto rispetto ad altri componimenti di Pascoli, è un concentrato della sua poetica: il simbolismo notturno, la dissoluzione dell’identità, la musicalità delle immagini, la malinconia che nasce dal silenzio.
L’uomo riflesso nel lago non è solo una figura solitaria: è ciascuno di noi nel momento in cui ci fermiamo a guardare dentro, e troviamo solo un’ombra.
Tra la luna che scintilla e il respiro dei grilli, Giovanni Pascoli ci lascia una visione indimenticabile: quella dell’anima che si culla tra l’acqua e la luce, in una notte che non smette mai di interrogare chi ascolta.