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“Ariel” (1962) di Sylvia Plath, poesia sul valore della libertà femminile

Vivere la disperazione di una donna che sogna di rinascere libera. Scopri la meravigliosa "Ariel" poesia di Sylvia Plath inno alla libertà della donna.

Ariel di Sylvia Plath  è una poesia che mette in scena il canto di una donna che vuole liberarsi da tutto ciò che le crea oppressione. È una inno alla libertà femminile e allo stesso tempo alla liberazione di ogni essere umano dalle catene della morale che finisce per imprigionare l’essere e la sua espressività.

La storia di Sylvia Plath è emblematica, quel maledetto 11 febbraio 1963 decise di suicidarsi, all’età di solo 31 anni, per l’oppressione da parte del marito. Per questo questa poesia può benissimo essere considerata l’inno contro tutte le violenze fisiche e psicologiche che milioni di donne purtroppo sono costrette a subire.

Ariel fu scritta da Sylvia Plath il 27 ottobre del 1962 e fa parte dell’omonima raccolta postuma, curata proprio dal marito Ted Hughes, pubblicata nel 1965.

Leggiamo la poesia di Sylvia Plath per viverne la bellezza liberatoria e interpretarne il significato.

Ariel di Sylvia Plath

Stasi nel buio.
Poi l’insostanziale azzurro
versarsi di vette e distanze.

Leonessa di Dio,
come in una ci evolviamo,
perno di calcagni e ginocchi! – La ruga

s’incide e si cancella, sorella
al bruno arco
del collo che non posso serrare,

bacche
occhi da negro,
lanciano ganci –

boccate di un nero dolce sangue,
ombre.
Qualcos’altro

mi tira su nell’aria –
Cosce, capelli;
dai miei calcagni si squama.

Bianca
Godiva, mi spoglio –
Mani morte, stringhe morte

E adesso io
spumeggio al grano, scintillio di mari.
Il pianto del bambino

nel muro si liquefà.
E io sono la freccia,
la rugiada che vola suicida,

in una con la spinta
dentro il rosso
occhio, cratere del mattino.

 

Ariel, Sylvia Plath

Stasis in darkness.
Then the substanceless blue
Pour of tor and distances.

God’s lioness,
How one we grow,
Pivot of heels and knees!—The furrow

Splits and passes, sister to
The brown arc
Of the neck I cannot catch,

Nigger-eye
Berries cast dark
Hooks—

Black sweet blood mouthfuls,
Shadows.
Something else

Hauls me through air—
Thighs, hair;
Flakes from my heels.

White
Godiva, I unpeel—
Dead hands, dead stringencies.

And now I
Foam to wheat, a glitter of seas.
The child’s cry

Melts in the wall.
And I
Am the arrow,

The dew that flies
Suicidal, at one with the drive
Into the red

Eye, the cauldron of morning.

Una poesia che svela rinascita e alienazione

Ariel è una poesia di Sylvia Plath che può essere considerata come la voglia di poter rinascere libera, indipendente, senza nessuna oppressione interiore ed esteriore. Quel 27 ottobre del 1962, il giorno in cui scrisse il poema, la poetessa statunitense, ma trasferita in Inghilterra, evidentemente avvertiva che il tutto il mondo in cui viveva la faceva soffrire, l’opprimeva, la faceva impazzire.

La poesia mira a fare emergere il potere del cambiamento, sulla libertà e sulla morte. L’io poetico si slancia in una corsa sfrenata, passando da una dimensione terrena a una più astratta e metafisica, fino a dissolversi nell’universo. Il tono è esaltato, quasi mistico, ma carico anche di un’ombra mortale.

L’autrice volle dare alla poesia il nome di “Ariel”, il cavallo che cavalcava ogni settimana alla scuola di equitazione Dartmoor, nel Devon, quando era ancora una studentessa di Cambridge. Era un’esperienza che le donava libertà, pace, serenità.

La voglia di sentirsi libera

E i versi del poema riportano a quell’esperienza liberatoria, nel corso del testo l’autrice si libera di tutto ciò che la trattiene e inizia a sentirsi un tutt’uno con l’esuberante forza naturale che vede nel paesaggio e nel cavallo.

L’allusione del titolo fa riferimento anche allo spirito d’aria, “Ariel”, un personaggio de La Tempesta di William Shakespeare, che viene liberato dalla servitù alla fine dell’opera, non fa che rafforzare quella voglia della poetessa di abbandonarsi pienamente e liberamente ai propri impulsi naturali. La voglia di poter vivere un’esperienza di rinascita, liberatoria e gioiosa.

Nei primi versi, l’autrice vive l’esperienza del viaggio mattutino nel suo corpo, collegandosi alla scena attraverso l’esperienza fisica. L’immersione in questa esperienza la prepara a sentire una connessione più profonda con il mondo che la circonda.

Sylvia Plath inizia nella poesia ad immergersi nei movimenti corporei suoi e del cavallo, come se fossero in totale simbiosi. I suoi pensieri più intimi si fondono con la natura che la circonda (“sorella”), che le offrono libertà e gioia, mentre cerca di poter vivere l’energia selvaggia del cavallo al galoppo, difficile da “serrare”, da controllare. Emerge dai primi versi una sensazione di equilibrio precario, “perno di calcagni e ginocchi”, come se l’autrice cercasse di mantenere il controllo.

La forza potente che pervade il mondo naturale è un passo avanti a lei e la guida. Quando l’autrice si ferma ad assaggiare le bacche vive il fatto che loro abbiano “sangue” come lei e sentendo le spine come “ganci” che la ancorano al mondo fisico.

Man mano che l’autrice prosegue il suo viaggio, il suo legame fisico con l’ambiente si trasforma in un legame spirituale e diventa un tutt’uno con gli impulsi che la guidano. Quando si ferma a mangiare le bacche sperimenta un legame fisico, un impulso naturale più profondo si impadronisce del corpo dell’autrice, portando con sé ogni parte di lei, dai “capelli” alla pelle che “si sfalda dai talloni”.

Sylvia Plath si paragona a Lady Godiva, la quale, secondo la leggenda, cavalcò nuda per le vie di Coventry per ottenere la soppressione di un ulteriore tributo imposto dal marito ai propri sudditi. Mentre la forza del mondo naturale la travolge, si sente libera del peso morto che la opprime “mani morte, stringhe morte”. Le “mani” suggeriscono il corpo e il mondo fisico, mentre le “stringhe” sono le linee guida rigide che non la trattengono più. È chiaro che cerca di offrire un segno di vulnerabilità ma anche di potenza.

Si lascia persino andare ai pesi della paternità o ai ricordi dolorosi dell’infanzia, “il pianto del bambino, si scioglie nel muro”. Mentre cavalca in preda a questa strana forza, l’oratore diventa sempre meno materiale, “spumeggiando in grano, uno scintillio di mari” e assomigliando alla “rugiada” che evaporerà sotto il sole del mattino.

In altre parole, la poetessa trascende la sua forma fisica e si avvicina sempre di più alla forza naturale che la spinge, diventando “un tutt’uno con la spinta” in avanti, verso l’orizzonte, che l’ha guidato per tutto questo tempo. Liberarsi dalle restrizioni e abbandonarsi agli impulsi naturali porta all’oratrice forza, libertà ed eccitazione, anche se non sono privi di pericoli.Ma alla fine, questa esperienza trascendente vale profondamente la pena.

Mentre la cavalcata è iniziata con “la stasi nell’oscurità”, ovvero una totale mancanza di luce o di movimento, scorrendo i versi si trasforma ne “l’unità di se stessa” verso il sole del mattino, acquisendo potere e consapevolezza. Una volta completata la trasformazione, si paragona a una “freccia” feroce e penetrante, assumendo la forza e la velocità della forza naturale che la guida. Allo stesso tempo, l’oratore accenna al fatto che si tratta di un processo pericoloso, riferendosi alla rugiada come “suicida” mentre vola verso il sole infuocato, il “calderone del mattino”.

Si percepisce leggendo gli ultimi versi della poesia di Sylvia Plath che la liberazione porti con sé la minaccia della distruzione. Tuttavia, i riferimenti circostanti (“guida”, “freccia”, ecc.) suggeriscono che questo processo è eccitante e motivante, anche se pericoloso.

In altre parole, la cavalcata di Sylvia Plath illustra la trascendenza estatica che si verifica quando le persone mettono da parte le restrizioni fisiche e umane e permettono ai loro istinti disinibiti di prendere il sopravvento.

Morte e rinascita

L’immagine finale della freccia che vola nel “rosso occhio, cratere del mattino” può essere letta come un suicidio metaforico o come una fusione totale con la natura e l’universo. Il sole nascente (l’occhio rosso) può simboleggiare sia la distruzione che una rinascita, un nuovo inizio dopo la dissoluzione del sé. Ricordiamoci che pochi mesi più avanti, l’11 febbraio 1963, Sylvia Plath si tolse la vita, una gesto che sembra annunciare nelle ultime poesie.

Elementi di identità e autodistruzione

Il verso “occhi da negro, lanciano ganci” è controverso, ma potrebbe suggerire un senso di alienazione e frammentazione dell’identità. L’idea della dissoluzione si amplifica con immagini di sangue nero, ombre e liquefazione, segno di un’esperienza estrema e al limite tra estasi e annientamento.

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