Scritta nel 1917 e pubblicata postuma, questa quartina appartiene alla fase matura della poesia di Costantino Kavafis, il grande autore greco nato ad Alessandria d’Egitto nel 1863 e vissuto ai margini delle mode letterarie del suo tempo.
Solo quattro versi per affermare la libertà del corpo e dell’anima, capaci di condensare un’intera idea di vita che il poeta, ormai maturo, osserva con orgoglio e lucidità.
Nei ricordi di Kavafis, il piacere diventa identità e resistenza. Non c’è nostalgia morbida in queste righe, ma la forza di una rivendicazione: ciò che è stato vissuto non si rinnega.
“Al piacere” di Costantino Kavafis
Gioia e vanto della vita mia, ricordarmi le ore
in cui ho trovato e stretto a me il piacere come lo volevo.
Gioia e vanto della vita mia sono io stesso,
che ho sdegnato il godimento degli amori routinari.
Un brindisi nascosto
Il titolo originale, in greco, era “Ἡδονῇ”, con il segno dello iota sottoscritto che indicava il dativo: “Al piacere”. Nelle edizioni moderne, la semplificazione grafica ha cancellato questo dettaglio, trasformando il senso in “Piacere”, come fosse un concetto astratto.
Ma ricordiamo che Kavafis scriveva in un sistema che dava importanza alle sfumature. Quel dativo era quasi un brindisi, un’invocazione agli déi — tipico della sua poetica sono le composizioni dedicate agli déi greci e alla mitologia affine — perciò non è un trattato sul piacere, ma una dedica personale, un atto di gratitudine verso ciò che ha dato forma alla sua esistenza.
Il Piacere come la Gioia
Il primo verso è un colpo netto:
“Gioia e vanto della vita mia”.
Non dice “una gioia”, ma “la gioia”, come se tutto il resto impallidisse davanti a quell’esperienza. È una formula solenne, ripetuta due volte nel testo, quasi come un ritornello interiore. Il Piacere, per Kavafis, non è un episodio marginale: è un’entità viva, la verità che salva dal l’uomo da se stesso.
E subito, dopo questa dichiarazione, la frase si apre al tempo:
“ricordarmi le ore”.
Il richiamo di ore scelte, afferrate, vissute nella consapevolezza che il desiderio non è colpa, ma rivelazione. E a questo punto Kavafis chiede al Piacere di ricordare le ore passate in sua compagnia.
Senza compromessi
Il secondo verso completa il senso:
“in cui ho trovato e stretto a me il piacere come lo volevo”.
Qui c’è tutto Kavafis: l’ostinazione silenziosa di chi non accetta compromessi. Non si tratta di un piacere qualsiasi, ma di quello cercato, desiderato “come lo volevo”. È una frase semplice, ma vibrante di orgoglio. In una società che condannava l’omosessualità, affermare di aver vissuto l’amore come lo si voleva è un gesto politico, anche se espresso nel linguaggio intimo della poesia. Perché Kavafis non abbassa gli occhi, non mette già la penna.
Ecco il cuore della tensione kavafiana: il Piacere non è trasgressione gratuita, ma libertà conquistata. Nel gesto di “stringere” c’è l’immagine concreta di un corpo amato, ma anche quella, più sottile, di un’identità che si riconosce.
L’etica di Kavafis e la scelta di essere se stesso
L’ultimo verso è una chiusura tagliente:
“che ho sdegnato il godimento degli amori routinari”.
Qui il poeta si pone in antitesi a un mondo che vive di abitudini, di relazioni convenzionali. L’aggettivo “routinari” è dissonante, ma serve a sottolineare il rifiuto netto della routine sentimentale che vede tutt’intorno, perché lui non vuole amori di facciata, dettati dalle norme sociali, come quelli degli altri. Preferisce il rischio della solitudine alla sicurezza del compromesso. Probabilmente conosce molti che, omosessuali come lui, per evitare il rischio, hanno preferito sposarsi lo stesso con una donna e rovinare la vita propria e della moglie… e non vuole fare altrettanto.
Questa frase illumina la doppia natura del Piacere nella sua poesia: da un lato esperienza fisica, dall’altro affermazione etica. Non si tratta di godere per godere, ma di custodire la qualità dell’incontro, la sua unicità irripetibile. Ed è proprio questa selezione a trasformare il ricordo in “gioia e vanto”.
L’uomo dietro i versi
Leggere queste parole significa anche immaginare l’uomo che le scrive. Costantino Kavafis vive ad Alessandria, lontano dai grandi centri letterari, in una città cosmopolita ma intrisa di rigidità morali. Lavora come impiegato, conduce un’esistenza discreta, ma nella sua scrittura costruisce un rifugio di libertà.
Molte sue poesie nascono da incontri fugaci, da amori vissuti in stanze anonime. “Al piacere” è uno dei testi in cui questa memoria si fa più limpida. Ma lo fa senza rimorso, con orgoglio.
Nella sua poetica c’è un richiamo costante alla bellezza come resistenza: la bellezza del corpo giovane, il brivido del desiderio, ma anche la bellezza di non aver ceduto all’ipocrisia — come in questo caso.
Una poesia ancora viva
Un secolo dopo, “Al piacere” continua a parlare. Non solo a chi conosce la biografia di Kavafis, ma a chiunque cerchi una parola che giustifichi la fedeltà ai propri desideri e a chi crede che il vero “vanto” di una vita sia essere sé stessi.