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Costantino Kavafis, il più antico tra i poeti moderni

Costantino Kavafis è definito il più antico tra i poeti moderni: nella sua voce riecheggiano gli echi dei poeti greci arcaici che hanno inaugurato la poesia lirica europea

Oggi, 29 Aprile, festeggiamo l’anniversario della nascita (e della morte) di Costantino Kavafis (1863 – 1933).  Lo possiamo definire il più antico tra i poeti moderni: nella sua voce riecheggiano  gli echi e le pronunce di quei poeti greci arcaici che hanno inaugurato la poesia lirica europea.

Marguerite Yourcenar, nel bellissimo romanzo Memorie di Adriano, scrive: “quasi tutto quello che gli uomini hanno detto di meglio, lo hanno detto in greco”.

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La Grecia antica, in particolare Atena, ha posto le basi della cultura europea. Per quanto riguarda l’elaborazione del sapere letterario, la Grecia è stata la culla – oltreché del teatro e dell’epos omerico – della poesia lirica. L’aggettivo «lirica» è legato alla consuetudine di accompagnare – in una virtuosa interazione –  la recitazione dei versi  con il suono della lira.

Poeti come Archiloco, Saffo e Mimnermo hanno posto le basi di un genere deputato – per tutti i secoli a venire – ad ospitare l’esplorazione della soggettività poetica, con le sue inchieste sempre aperte sul cuore umano.

La vita di Costantino Kavafis – nato e morto ad Alessandria di Egitto – fu piuttosto appartata, dedicata principalmente alla ricerca poetica. La maggior parte delle sue poesie furono pubblicate postume e ottennero un successo ampio e tempestivo che innalzò l’autore nel novero dei maestri della poesia novecentesca.

I riferimenti al mito e alla classicità nutrono la sua ispirazione: una delle sue poesie più famose si intitola Itaca e si riallaccia con limpida evidenza al grande archetipo omerico dell’Odissea.

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I poemi omerici – come tutti i grandi libri – veicolano delle verità esistenziali perenni, che spetta ai lettori di ogni epoca accogliere e custodire. Se l’Iliade ci insegna che tutta la vita è una guerra ( i latini dicevano vita hominis militia est ) l’altro poema ci racconta che ogni vita è un viaggio e che – per quanto modesta e monotona possa sembrare – contiene in sé la promessa di qualcosa di grandioso da raggiungere e conquistare.

Nella poesia Itaca, il poeta riprende il mitologema del viaggio come metafora dell’esistenza.

Allo stesso modo di Ulisse, ogni uomo indirizza la propria navigazione esistenziale verso la sua Itaca, da intendersi come la realizzazione del suo progetto esistenziale.

L’incipit di questa poesia – però –  contiene un invito paradossale:

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.

Non dobbiamo affrettare il viaggio, ma anzi compiere soste in tanti porti diversi:

Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta;
più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.

Il sale della poesia è l’ambiguità. In virtù della polisemia la poesia tende a sfrangiarsi in una molteplicità di interpretazioni tutte ugualmente legittime.

Le metafore depositate in questi versi offrono una varietà di possibilità interpretative.

L’invito a fare sosta negli empori fenici e ad acquistare merci pregiate – come quello di visitare città egizie – pone l’accento sulla necessità di arricchire la nostra vita di incontri, occasioni culturali e insegnamenti. Sempre però dobbiamo avere in mente Itaca. Giunti a destinazione, potrebbe capitare che la meta agognata ci deluda rivelandosi al di sotto delle aspettative.

In virtù del grande patrimonio di esperienze accumulato durante il viaggio, avremo però capito che l’esito della nostra avventura è un altro, ossia la scoperta che in realtà la meta e il viaggio coincidono.

Il lungo itinerario ci ha permesso – per citare l’Ulisse di Dante – di «divenir del mondo esperti / e degli vizi umani  e del valore. ».

Ecco il messaggio conclusivo:

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

La vita coincide con l’attesa, il sogno di sé stessa. Sembra quasi che il poeta – nel momento in cui cala il sipario sul testo poetico –  consegni al lettore una tautologia sulla quale meditare a lungo: il senso della vita non è altro che la vita.

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Nella voce di Costantino Kavafis – come succede con i grandissimi poeti – non sentiamo l’ombra del tempo.  Egli non appartiene a un oggi, ma a un sempre.

Molto spesso le sue liriche sono delle epifanie improvvise del ricordo, dei brividi memoriali che provocano un breve trasalimento.

In uno dei componimenti più celebri, Costantino Kavafis apre allo sguardo lo spettacolo del mare durante le prime ore del giorno. Vedere quello che gli altri no vedono è da sempre il compito precipuo del poeta.

Fermarmi qui. Per vedere anch’io un po’ di natura.
Luminosi azzurri e gialle sponde
del mare al mattino e del cielo limpido: tutto
è bello e in piena luce.

Nei versi seguenti emerge una domanda: l’io – lirico si chiede se ha veramente visto il mare o non piuttosto le sue fantasie, i ricordi, le visioni del piacere. Per quanto strano sembri, per noi uomini è veramente difficile osservare il mondo con occhi neutrali. Siamo esseri proiettanti. continuamente e inevitabilmente proiettiamo sullo schermo del mondo sogni, ricordi, desideri.

Crediamo di camminare lungo le strade della terra mentre in realtà non facciamo che inoltrarci in noi stessi e riconoscere – al di fuori di noi – il nostro passato, divenuto sostanza plastica e figurativa.

Come diceva Carl Gustav Jung, noi uomini non vediamo le cose come sono, ma come siamo. I poeti, che rispetto ai filosofi promettono di meno ma mantengono di più, lo hanno sempre saputo…

Una delle sorgenti ispirative più pure della poesia di Costantino Kavafis è la nostalgia del piacere fisico. Nei suoi versi egli celebra i doni più belli e più fugaci dell’esistenza, elargiti dalla dea Afrodite: la giovinezza, il sesso, il lampeggiare del desiderio negli occhi adolescenti. In questo senso possiamo definirlo un Mimnermo novecentesco.

Anche lui implicitamente si domanda – come il poeta fraterno di tanti secoli prima – come si possa continuare a vivere senza la luce della giovinezza.

Archiloco – altro grande poeta lirico della Grecia arcaica – si rivolgeva al proprio cuore invitandolo a riconoscere e  ad accettare il ritmo che governa l’esistenza. Il poeta moderno, Costantino Kavafis, invita il proprio corpo a ricordare tutti i godimenti provati e anche tutti i desideri inadempiuti. La vita è desiderio e nostalgia.

Ricorda non solo quanto fosti amato, corpo,
non solo i letti sopra cui giacesti,
ma anche quei desideri che per te
brillavano negli occhi apertamente,
tremavano nella voce – resi vani
da qualche impedimento casuale.
Ora che tutto è parte del passato,
è come se ti fossi concesso
anche a quei desideri – ricordali brillare
negli occhi volti verso te,
tremare nella voce, per te, ricorda, corpo.

Come sempre, l’unica alleata del poeta, capace di combattere la desertificazione dell’esistenza causata dal tempo che divora la vita – è la memoria, la quale custodisce nei versi il ricordo dei trofei esistenziali più amati e proibiti.

Mirra e delizia della vita mi è il ricordo delle ore

in cui trovai il piacere come lo desideravo

e lo trattenni forte. Mirra e delizia della vita

per me che disdegnavo ogni piacere dei consueti amori.

Il tema dello scorrere del Tempo è orchestrato in maniera originale nella poesia di Costantino Kavafis Candele, dove il poeta immagina i giorni che compongono la vita di un uomo come una lunghissima fila di candele. La differenza tra passato e presente è questa:  i giorni del passato ( potremmo dire: la somma di tutti i nostri ieri )  formano una lunga fila di candele spente; al contrario, i giorni del futuro sono una riga di candele ancora accese.

Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese
dorate, calde, e vivide.

Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine dànno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.

Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto,
la memoria m’accora del loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.

Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido,
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.

Secondo Seneca, la Morte non è semplicemente la foce dell’esistenza che si colloca in un futuro più o meno remoto. Essa coincide con il nostro passato che oramai non ci appartiene più. È la somma cadaverica dei giorni e degli anni vissuti. Solo il bacio dell’arte può farli rivivere.

Anche Costantino Kavafis, come Salvatore Quasimodo ( poeta ampiamente interessato alla grecità ) sembra dirci che ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole. / Ed è subito sera.

Tutta la vita si racchiude in un punto, ruota intorno a un istante privilegiato, a un momento splendido e irripetibile. Noi uomini siamo creature di un solo giorno: dobbiamo saper aspettare, metterci in posizione e prendere i raggi del sole al punto giusto. Ma è un attimo. Il sole della gioia tramonta presto. Ma non è la felicità che vien meno, è la nostra forma, la nostra pienezza e voglia di mezzi. È quello che siamo che è caduco, che va via presto. Appena il tempo di affacciarci – turisti dell’esistenza – sulla terrazza della vita e subito bisogna lasciare il posto agli altri.

Nella bella traduzione di Quasimodo, la voce di Mimnermo ( il Kavafis del mondo antico…) ci ricorda che Fulmineo / precipita il frutto di giovinezza / come la luce di un giorno sulla terra .

La poesia – come ci hanno insegnato – è la confessione che la vita non  basta mai a nessuno.

Dario Pisano

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