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Al padre, la poesia di Salvatore Quasimodo da dedicare a tutti i papà

"Al padre" di Salvatore Quasimodo è una poesia da dedicare a tutti i papà, scritta nel 1958 in occasione del novantesimo compleanno del padre.

“Al padre” è una poesia di Salvatore Quasimodo, perfetta per essere dedicata a tutti i papà per la loro festa del 19 Marzo. Scritta nel 1958, in occasione del novantesimo compleanno del padre, è incluso nella raccolta La terra impareggiabile (1958). Qui troviamo  la volontà di rendere omaggio all’uomo il cui insegnamento etico ha segnato profondamente il poeta. 

Una frase di Umberto Eco da dedicare a tutti i papà

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Per celebrare la Festa del Papà, vi proponiamo oggi una frase di Umberto Eco, che ci invita a riflettere sul rapporto padre-figlio.

Il coraggio che un papà sa insegnare

Salvatore Quasimodo ha reso omaggio al proprio papà, nel 1958, sottolineando i profondi insegnamenti che quest’ultimo gli ha lasciato. I versi iniziare rievocano il terribile terremoto di Messina avvenuto nel 1908, dove il papà di Quasimodo ha potuto dimostrare grandissima forza fisica e morale. Qui, il ricordo della nobile figura del padre si intreccia al ricordo della Sicilia lontana, emblema mitizzato di una felicità perduta. 

La tragedia di Messina, descritta con violenza ed un linguaggio crudo,  (macerie, terremoto, uragani, mare avvelenato, sogni polverosi..), rappresenta il “rito di passaggio” all’età adulta. Rito avvenuto grazie al coraggio dimostrato dal padre che, nel suo impegno pratico davanti alle difficoltà (“Il tuo berretto di sole andava su e giù”; “tu vai lungo binari”), ha trovato il tempo di essere affettuoso e attento ai propri figli (La tua pazienza / triste, delicata, ci rubò la paura).  Un omaggio commovente alla figura paterna, al coraggio che questa sa darci e insegnarci. 

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Al padre, la poesia 

Dove sull’acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.

La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.

Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
‘Baciamu li mani’. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.

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