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Si dice “per cui” o “perciò”? L’errore da non commettere

Quando è più corretto utilizzare “per cui” e in quali altri casi la formula giusta risulta essere “perciò”? Scopri la soluzione a questo dilemma linguistico, che spesso gli stessi dizionari italiani faticano a chiarire.

Moltissime persone nel linguaggio parlato, ma anche alcuni giornalisti, utilizzano la locuzione per cui nel senso di perciò, per la qual cosa; si tratta di una formula avallata anche da alcuni vocabolari. Qual è la dicitura più corretta? Si dice “per cui” o “perciò”? Abbiamo chiesto di risolvere il curioso dilemma a Fausto Raso, giornalista specializzato in problematiche linguistiche.

La premessa: il cui

Il cui, innanzi tutto, è un pronome relativo indeclinabile ed è riferibile a persona, animale e cosa. Come citato in Treccani, si tratta della forma obliqua del pronome relativo che (o il quale, la quale, i quali, le quali), a cui si sostituisce nei complementi indiretti, con un’unica forma per ambedue i generi e numeri.

Non è corretto il suo uso in funzione di soggetto, si adopera esclusivamente con i complementi indiretti: ecco il libro “di cui” ti parlavo; tu sei la persona “per cui” ho molto sofferto. Quando è complemento di termine può essere o no preceduto dalla preposizione semplice o articolata “a”, dipende dal gusto di chi scrive o parla: la persona “cui” mi rivolsi o la persona “a cui” mi rivolsi.

Altri esempi: il progetto di cui ti ho parlato; la questione a cui accennavi; nelle condizioni in cui siamo; il luogo da cui venite; l’aereo con cui parto; i motivi per cui son venuto.

Anticam. fu usato anche come pronome interrogativo in complementi indiretti, per dire “al posto di chi”. Esempi letterari: “Guarda com’entri e di cui tu ti fide” (Dante); “Porti la guerra e quando vuole, e a cui” (T. Tasso).

Perciò

Come indicato all’interno del vocabolario Treccani, perciò (o “pér ciò”) è una congiunzione che ha valore conclusivo introducendo una conclusione all’interno di un ragionamento, trovandosi quindi spesso tra due proposizioni. Essa spesso introduce una proposizione nella quale si esprime la conseguenza di fatti già enunciati che ne sono in qualche modo la causa. Esempio: “faceva freddo, p. ho chiuso la finestra”.

Essa può essere anche preceduta dalla congiunzione “e”, anche nella sua versione con grafica unita “epperciò”. Preceduto da negazione, “non per ciò”, può essere utilizzato come sinonimo di non pertanto/tuttavia non. Un esempio dalla letteratura: “ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de’ benifici” (Boccaccio).

Oltre a p. troviamo all’interno di questo gruppo di congiunzioni conclusive: dunque, quindi, inoltre, insomma, pertanto, allora, e lo stesso per cui oggetto del dilemma che stiamo analizzando.

L’errore da evitare

Fatta la prima importante (e necessaria) precisazione e analizzata la congiunzione conclusiva, veniamo all’errore “di cui” parliamo in questo articolo. Lo strafalcione, dunque, consiste nel dare al “cui” un significato neutro che molto spesso si dà al pronome “che”, vale a dire l’accezione di “la qual cosa” formando, così, il costrutto – errato, ripetiamo – “per cui” nel senso di “perciò”, “per la qual cosa”.

Per essere estremamente chiari, insomma, non si può dire o scrivere, per esempio, “ieri pioveva per cui non sono potuto uscire”. Si dirà correttamente, utilizzando correttamente la lingua italiana, “ieri pioveva perciò non sono potuto uscire”.

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L’ipotesi di “linguicidio”

Pedanteria? Fate l’analisi logica del “per cui” e giudicate. E a proposito di pedanteria (che brutta parola!) se proprio volessimo essere “pedanti” dovremmo sostenere – a spada tratta – la tesi secondo la quale è errato scrivere i pronomi personali “glielo”, “gliela”, “gliene” ecc. in grafia unita. La forma corretta “sarebbe” quella staccata: “glie lo”, “glie ne”.

Secondo il linguista Amerindo Camilli coloro che usano la grafia univerbata commetterebbero un “linguicidio”. Perché, dunque, questi pronomi (glielo, gliene ecc.) dovrebbero essere scritti in forma scissa? Perché, secondo il Camilli, la grafia staccata si conforma a quella di “me lo”, “te ne” ecc. La forma “errata”, però, è proprio quella comunemente adoperata.

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