Il pronome relativo-indefinito “checché” è una di quelle forme linguistiche della lingua italiana che, pur avendo una funzione ben precisa e una storia antica, oggi tendono a essere utilizzate sempre più raramente e quasi esclusivamente in contesti di tono elevato o letterario. Proprio per questo motivo, risulta interessante soffermarsi sul suo significato, sulla sua origine e sul modo corretto di impiegarlo all’interno di una frase.
Lingua italiana e storia del pronome “checché”
Partiamo dalla definizione: “checché”, o nella forma arcaica “che che”, è un pronome relativo indefinito di valore neutro. Significa “qualunque cosa”, “qualunque cosa che” e viene utilizzato per introdurre una subordinata relativa che ha funzione di soggetto o di complemento oggetto nella frase in cui è inserita. Per esempio: “Checché accada, io resterò al mio posto”, oppure “Faccio il mio lavoro, checché ne pensiate”. In entrambi i casi, il pronome introduce una proposizione subordinata che specifica una condizione o una circostanza generica, senza precisare quale essa sia.
Dal punto di vista etimologico, “checché” deriva dal latino “quidquid”, letteralmente “qualsiasi cosa”. La lingua italiana, nel corso della sua evoluzione, ha conservato questa struttura ridondante di ripetizione (che + che), che ha poi assunto la forma grafica contratta di “checché”. È interessante notare come questa forma rappresenti una delle tante tracce della stratificazione linguistica che caratterizza il nostro idioma, nel quale elementi di origine latina continuano a vivere — sebbene in forma meno frequente — nella lingua moderna.
Dal punto di vista sintattico, “checché” si usa prevalentemente in frasi ipotetiche, concessive o avversative, proprio per il suo valore generico e indefinito. È importante sottolineare che può occupare la funzione di soggetto o di complemento oggetto all’interno della proposizione relativa che introduce. Ad esempio:
“Checché tu faccia, non riuscirai a convincermi” → soggetto
“Ti aiuterò, checché ne dicano gli altri” → complemento oggetto
Un aspetto significativo di questo pronome è il suo tono lievemente sostenuto, che lo rende più adatto alla lingua scritta, alla letteratura o a discorsi formali, piuttosto che alla conversazione quotidiana. Nella lingua parlata di oggi, infatti, si preferiscono soluzioni più semplici e dirette, come “qualunque cosa”, “qualsiasi cosa” o espressioni più colloquiali del tipo “non importa cosa”, “a prescindere da”. Eppure, proprio per questa sua connotazione stilistica, “checché” mantiene una sua eleganza e una capacità espressiva che arricchisce il testo in cui è inserito, dando un tono solenne e riflessivo alla frase.
Se guardiamo alla letteratura e alla prosa d’arte, è facile trovare esempi di uso di “checché” in autori classici e moderni. Scrittori come Manzoni, Foscolo, Leopardi e persino D’Annunzio, abituati a una lingua alta e cesellata, hanno spesso fatto ricorso a questa forma per sottolineare il carattere assoluto e ineluttabile di certe situazioni. Ad esempio: “Checché gli altri pensino, io rimango fedele ai miei principi” — una frase che, in forma più semplice, perderebbe parte della sua gravità.
Nella lingua moderna, e soprattutto nella scrittura giornalistica o saggistica, “checché” appare più raramente, ma non è scomparso. Viene riservato a frasi di particolare rilievo o in contesti in cui si voglia sottolineare con forza una determinata posizione, indipendentemente dalle opinioni o dalle reazioni altrui. Ad esempio: “Checché se ne dica, il valore della memoria storica resta imprescindibile per una società civile”. In questo caso, l’uso del pronome aggiunge un tono di fermezza e convinzione al concetto espresso.
Usare con parsimonia e consapevolezza
Va detto, però, che per quanto “checché” sia grammaticalmente corretto e perfettamente lecito, il suo impiego richiede una certa attenzione. Utilizzato in un contesto colloquiale o in testi di registro medio-basso, rischia di suonare eccessivamente ricercato o antiquato. È quindi consigliabile riservarlo a contesti formali, letterari o a situazioni comunicative in cui si voglia intenzionalmente conferire alla frase un tono elevato o sentenzioso.
In conclusione, “checché” rappresenta una di quelle preziose sopravvivenze della lingua italiana che testimoniano la continuità storica tra il latino e l’italiano moderno. Pur essendo oggi meno comune e più circoscritto a contesti formali o letterari, resta un pronome utile e significativo, capace di conferire solennità e incisività alle proposizioni che introduce. La sua conoscenza e il suo uso consapevole arricchiscono il repertorio espressivo di chi scrive o parla, mantenendo viva una tradizione linguistica che non merita di essere dimenticata.