La lingua italiana, ricca di sfumature e regole in continua evoluzione, nasconde spesso insidie che creano dubbi anche tra i parlanti più attenti. Uno dei casi più comuni riguarda la distinzione tra “buon giorno” e “buongiorno”. Entrambe le grafie sono corrette, ma non sempre equivalenti: occorre distinguere tra l’uso come interiezione, cioè come formula di saluto, e l’uso come sostantivo. Questa differenza, apparentemente sottile, permette di comprendere meglio il funzionamento della nostra lingua e i processi che portano due parole a unirsi in una sola.
Lingua italiana: saluto o sostantivo? La chiave del dubbio
La prima distinzione fondamentale da fare è di tipo grammaticale.
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Quando diciamo “buon giorno” (separato), lo usiamo come interiezione, cioè come saluto. È l’equivalente di “ciao” o “arrivederci”: una formula che non indica una cosa o un oggetto, ma un’espressione di relazione sociale. In questo caso, la grafia può essere sia analitica (“buon giorno”) sia univerbata (“buongiorno”). Entrambe sono corrette e accettate.
Esempi:-
Buon giorno, professore!
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Buongiorno a tutti!
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Quando invece parliamo di “buongiorno” come sostantivo, la grafia corretta è esclusivamente quella univerbata. In questo caso non è più un semplice saluto, ma un concetto che può essere trattato come un nome qualunque.
Esempi:-
Il buongiorno si vede dal mattino.
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Mai una volta che i miei vicini mi diano il buongiorno!
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La regola, quindi, è chiara: come saluto possiamo scegliere, come sostantivo dobbiamo scrivere tutto attaccato.
Il processo di univerbazione
Il fenomeno che porta due parole a unirsi in una sola è detto univerbazione. È un processo linguistico comune non solo all’italiano, ma anche ad altre lingue, che riflette l’evoluzione naturale dell’uso. Molte espressioni che un tempo si scrivevano separate oggi sono diventate parole uniche:
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“mal grado” → malgrado
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“alla fine” → allafine (in disuso, ma attestato in testi antichi)
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“buona sera” → buonasera
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“buona notte” → buonanotte
Il caso di “buongiorno” si colloca nello stesso processo. La frequenza d’uso della formula di saluto ha favorito la fusione delle due parole, tanto che oggi la grafia univerbata è di gran lunga la più comune, specie nella scrittura veloce e nei messaggi digitali.
L’influenza dell’uso e dei registri
Un aspetto interessante riguarda la scelta stilistica tra le due forme nel saluto. “Buon giorno” con lo spazio tende a sembrare più formale, più vicino alla tradizione scritta, mentre “buongiorno” appare più moderno e diffuso. Tuttavia, la differenza non riguarda la correttezza grammaticale, ma solo una sfumatura di registro.
Un parlante attento può decidere di usare “buon giorno” in una lettera ufficiale per un tocco di eleganza, o “buongiorno” in una comunicazione quotidiana. Non a caso, anche nei testi letterari dell’Ottocento e del primo Novecento, “buon giorno” era più frequente, mentre nella lingua contemporanea prevale la forma univerbata.
Altri saluti: buonasera, buonanotte, buon pomeriggio
Il caso di “buongiorno” si inserisce in un sistema più ampio di formule di saluto che oscillano tra grafia analitica e univerbata.
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Buonasera: anche qui, entrambe le forme sono ammesse come saluto (“buona sera” / “buonasera”), ma come sostantivo va scritto univerbato (La buonasera di ieri è stata speciale).
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Buonanotte: segue la stessa regola. Buona notte è accettabile come saluto, ma buonanotte è la grafia unica se usata come sostantivo (La buonanotte dei miei bambini è un rito).
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Buon pomeriggio: a differenza degli altri, questa formula non si è ancora del tutto univerbata. Scrivere buonpomeriggio è raro e percepito come un errore: segno che l’uso non ha ancora spinto abbastanza verso la fusione.
Questo confronto mostra come la lingua sia viva e non uniforme: alcuni saluti hanno completato il processo di univerbazione, altri no.
Il valore simbolico del “buongiorno”
Oltre agli aspetti tecnici, vale la pena soffermarsi sul significato che la parola ha assunto nella cultura italiana. Dire “buongiorno” non è solo augurare una giornata positiva, ma è anche un gesto di cortesia che segna l’inizio di un’interazione sociale. Non riceverlo, come nell’esempio “mai una volta che i miei vicini mi diano il buongiorno”, viene percepito come una mancanza di educazione, quasi una negazione del riconoscimento reciproco.
Il sostantivo “buongiorno” diventa così il simbolo della convivenza civile: non è soltanto un saluto, ma un rito sociale che rafforza i legami tra le persone.
La lingua tra norma e uso
Il caso “buon giorno/buongiorno” mette in evidenza il rapporto complesso tra norma linguistica (le regole stabilite da grammatici e dizionari) e uso reale (il modo in cui i parlanti scrivono e parlano ogni giorno). La norma riconosce entrambe le grafie per il saluto, ma l’uso sta progressivamente spingendo verso la forma univerbata. È probabile che, in futuro, “buon giorno” rimanga una variante secondaria o addirittura antiquata, così come accaduto per molte altre espressioni.