La lingua italiana, complessa e ricca di sfumature, si trova spesso al centro di dibattiti su inclusività e uguaglianza di genere. Una delle questioni più recenti riguarda l’uso della parola “poeta” al femminile, proposta da alcuni come alternativa a “poetessa”. Tuttavia, questa scelta solleva interrogativi linguistici, storici e culturali che meritano un’analisi approfondita.
Prima di addentrarci nell’argomento è utile leggere questo estratto da “Studiare per amore” di Nicola Gardini:
So bene che il suffisso -essa non piace più a molti, anzi, a molte, perché manda puzza di denigrazione maschilistica. In realtà, “poeta” è termine maschile ed estenderlo al femminile è assai più maschilistico che distinguere tra “poetessa” e “poeta”. Anche l’inglese ha mandato in pensione poetess ed esteso poet al femminile: bisogna tenere conto, però, che questo è potuto avvenire senza forzature perché il suffisso -ess, importato dalle lingue romanze, suona comunque obsoleto e inutile in inglese, dove, per altro, le desinenze che qualificano il genere sono assai rare.
Altro fatto essenziale: la -a finale dell’italiano non ha niente di femminile, perché il vocabolo “poeta” è un maschile latino, come nauta (“marinaio”), pure lui di origine greca, agricola (“contadino”), advena (“forestiero”) e alcuni altri. Dunque, non ci sono neanche ragioni storiche per difendere un’espressione come “la poeta” – non più di quante ce ne siano per difendere “la professore”. Sessismo (volontario e involontario) ne esiste molto nella lingua italiana. Non lo ridurremo, però, con simili chirurgie.
Lingua italiana: le origini e storia della parola “poeta”
Il termine poeta ha origini greche e latine. In latino, è un sostantivo maschile della prima declinazione (poēta, poētae), che comprende anche altri termini come agricola (contadino), nauta (marinaio) e advena (forestiero). Sebbene la -a finale possa suggerire un’origine femminile a chi non conosca la morfologia latina, si tratta di un maschile storico, ereditato dalla lingua greca, dove aveva già la stessa declinazione.
Con il passare del tempo, nelle lingue romanze come l’italiano, la differenziazione di genere si è strutturata con suffissi come -essa, usato per creare il femminile di alcuni nomi maschili (poetessa, principessa, contessa). Questo suffisso è stato introdotto non solo per marcare il genere, ma anche per rispondere alla naturale evoluzione delle lingue romanze nel loro processo di precisione espressiva.
Il rifiuto del suffisso “-essa”
Oggi, molti trovano il suffisso -essa inappropriato, sostenendo che possa trasmettere un’aura di diminuzione o connotare una forma denigratoria rispetto al maschile. Questa percezione si basa su una critica al linguaggio maschilista, che talvolta riduce i ruoli femminili a uno status secondario. Ad esempio, mentre “professoressa” è accettata come normale, termini come “avvocatessa” o “sindachessa” possono suonare obsoleti o caricaturali.
Tuttavia, sostituire sistematicamente le forme con suffisso -essa con il maschile può risultare in un atto altrettanto maschilista. L’idea che “poeta” al femminile sia più inclusivo è paradossale: si priva infatti il femminile di una sua identità specifica, riportandolo alla neutralità maschile che tradizionalmente domina il linguaggio. Questo processo non elimina il sessismo, ma lo trasforma in una cancellazione della differenza di genere.
L’esempio dell’inglese, dove termini come poetess sono stati abbandonati in favore di poet per indicare sia uomini che donne, viene spesso portato a sostegno della tesi di “poeta” come forma neutra e inclusiva. Tuttavia, è importante notare che l’inglese non segue le stesse regole dell’italiano: è una lingua scarsamente flessiva, dove le desinenze che indicano genere sono rare o pressoché assenti.
In italiano, al contrario, le desinenze e i suffissi svolgono un ruolo cruciale nella definizione del genere e della funzione grammaticale. Cambiare il sistema per adeguarlo a modelli stranieri rischia di introdurre forzature che non rispettano la struttura intrinseca della lingua.
L’espressione “la poeta”, spesso proposta come forma femminile neutrale, è difficilmente giustificabile da un punto di vista storico o linguistico. Come già sottolineato, il maschile poeta appartiene alla tradizione latina e non ha connotazioni femminili. Inoltre, l’aggiunta dell’articolo femminile la di fronte a un termine storicamente maschile non ne cambia la natura. Per fare un confronto, dire “la professore” suonerebbe altrettanto stridente e scorretto.
Una vera inclusività: distinguere senza sminuire
Essere inclusivi non significa eliminare le differenze, ma valorizzarle senza connotazioni negative. Il termine poetessa offre al femminile una specificità identitaria, separandolo dal maschile senza sottrarre dignità. Sostituirlo con “poeta” potrebbe sembrare una soluzione moderna, ma rischia di annullare la presenza femminile e accentuare ulteriormente il predominio maschile nella lingua.
Per rendere la lingua davvero inclusiva, sarebbe più utile intervenire su ambiti in cui il sessismo linguistico è più evidente, come nelle professioni o nelle posizioni di potere. Ad esempio, il dibattito intorno a termini come “sindaco” o “ingegnere” al femminile è ancora aperto e meriterebbe attenzione.
Il dibattito sull’uso di “poeta” al femminile è un esempio di come il linguaggio si evolva in parallelo con i cambiamenti sociali. Tuttavia, le soluzioni proposte devono rispettare le regole e la storia della lingua italiana. Piuttosto che uniformare tutto al maschile, sarebbe più opportuno valorizzare le forme già esistenti, come poetessa, che possono coesistere con poeta senza creare squilibri o sminuire nessuno dei due generi.
In fondo, il cambiamento linguistico non può essere imposto: deve riflettere le esigenze di chi la lingua la usa. E, in questo caso, forse il vero progresso sta nell’accettare che la diversità, anche nelle parole, è una ricchezza da custodire.