Nella lingua italiana, la coppia di aggettivi “molle” e “mollo” rappresenta un interessante caso di variazione morfologica e dioscillazione tra forma standard e uso popolare o regionale. Entrambe le forme sono attestate, ma non sono equivalenti dal punto di vista normativo. Esaminando la storia linguistica, la diffusione d’uso e le attestazioni lessicografiche, possiamo fare chiarezza sullo statuto e la legittimità di ciascuna variante.
Origini e flessione nella lingua italiana
L’aggettivo “molle”, forma etimologicamente corretta e standard, deriva dal latino mollis, e designa qualcosa di morbido, cedevole, privo di rigidità. In italiano, appartiene alla classe degli aggettivi con due uscite: molle al maschile e al femminile singolare, molli al plurale. È analogo ad altri aggettivi italiani come “triste”, “fine”, “acre”, che nella storia linguistica hanno mostrato tendenze a subire una trasformazione morfologica, passando talvolta da due a quattro uscite (cioè con distinzioni formali tra maschile e femminile, singolare e plurale).
Come sottolineato da Gerhard Rohlfs nel suo Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti (1968, § 396), questo “trapasso” da due a quattro uscite è stato frequente nella storia della lingua. Lo studioso cita come esempi proprio aggettivi come triste / tristo, acre / agro, fine / fino, i quali, in molti casi, si sono diversificati non solo morfologicamente ma anche semanticamente. In particolare, l’aggettivo tristo, oggi più raro, ha assunto un valore peggiorativo rispetto a triste.
L’uso di “mollo” nelle varietà d’italiano
Anche molle ha subìto un simile processo. In molte varietà italoromanze, soprattutto nel nord Italia, ma non solo, si è diffusa la forma “mollo” (con femminile “molla”), come documentato dalla carta 1583 dell’Atlante Italo-Svizzero (AIS) e già segnalato da Rohlfs. Questa forma ha poi risalito il continuum linguistico arrivando anche a varie varietà dell’italiano parlato non standard.
I principali dizionari dell’uso contemporaneo confermano questo stato delle cose:
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Il GDLI e il Sabatini-Coletti 2024 definiscono mollo come popolare.
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Il GRADIT lo considera un regionalismo centromeridionale (nel senso di “intriso d’acqua”) e veneto (nel senso di “poco teso”).
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Il Vocabolario Treccani e il Devoto-Oli concordano con queste valutazioni, mentre lo Zingarelli 2025 lo qualifica come “variante pop. o region. di molle” in entrambi i sensi, con una nota che ne segnala l’uso come raro nel senso di “morbido”.
La forma standard, dunque, è e resta molle. Mollo è una variante substandard, che tuttavia gode di ampia vitalità nell’uso.
L’espressione “mettere a mollo”
Un caso particolarmente interessante è l’espressione “mettere a mollo”, oggi percepita come del tutto normale nell’italiano corrente. Eppure, la forma originaria era “mettere a molle”, attestata già nel XIV secolo, ad esempio nell’Almansore volgare, una traduzione di un’opera medica dal latino. Nei testi medievali si trovano entrambe le espressioni: stare in molle, mettere a molle, ma anche stare a molle.
La svolta si verifica nel XIX secolo, e in modo ancor più marcato nel secondo dopoguerra, quando la forma mollo inizia a prevalere nella locuzione. Oggi, secondo i dati dei corpus digitali (come Google Books), mettere a mollo è decisamente più frequente di mettere a molle, tanto da essere considerata la forma standard de facto, benché non sia quella etimologicamente più corretta.
“Mollo” e le polirematiche: “pappamolla” o “pappamollo”?
Un ulteriore esempio della vitalità della forma mollo è dato da parole composte e locuzioni fisse, come pappamolla / pappamollo (‘persona fiacca, priva di carattere’). Anche in questo caso, le due forme convivono, con una leggera prevalenza della variante pappamolla, ma con pappamolloquasi altrettanto frequente, segno che la variante popolare ha un ruolo robusto anche nella lessicografia creativa.
Altro dilemma: ammollo o a mollo?
Infine, la variante grafica “ammollo”, spesso usata in ambito culinario o domestico, come in mettere i ceci in ammollo, nasce per influsso del verbo “ammollare” e per la riconversione in sostantivo del significato. Il termine ammollo è attestato già nel 1570 (nell’opera di Bartolomeo Scappi, cuoco di Papa Pio V), anche se i dizionari moderni ne datano la diffusione al XX secolo. Oggi è comune in espressioni come lasciare il bucato in ammollo o mettere in ammollo i legumi.
Dunque, molle è la forma etimologicamente corretta e normativa, presente nella lingua letteraria e nei registri alti. Mollo, invece, è una variante popolare e regionale, che però ha conquistato ampie zone dell’uso quotidiano, in particolare nelle locuzioni fisse (mettere a mollo, pappamollo, stare in ammollo), dove è talvolta più viva della forma standard.
In definitiva, non si tratta di un errore, ma di una differenza di registro: molle per la lingua sorvegliata; mollo per quella parlata e familiare. E come spesso accade in italiano, entrambe le forme sono corrette, a seconda del contesto in cui si usano. Per saperne di più rimandiamo a questo ottimo articolo redatto dall’Accademia della Crusca: Molle, mollo, ammollo, a mollo.