Lingua italiana: “menare gramo”, significato della locuzione

11 Dicembre 2025

Scopriamo assieme l'origine e il significato della locuzione della lingua italiana "menare gramo" poi cristallizzata della parola "menagramo".

Lingua italiana: "menare gramo", significato della locuzione

La locuzione idiomatica “menare gramo” appartiene a quel patrimonio della lingua italiana che, pur essendo oggi quasi scomparso dall’uso quotidiano, conserva un fascino particolare, fatto di antiche stratificazioni e di una capacità espressiva che rivela molto sulla mentalità e sulla sensibilità di epoche passate. Esplorare questa espressione non significa soltanto ricostruire il senso di un modo di dire ormai desueto, ma anche comprendere come la lingua italiana abbia saputo catturare con inventiva un’intera gamma di condizioni esistenziali, molto spesso dure, spesso segnate dalla sfortuna, dalla fatica, dalla precarietà del quotidiano.

Lingua italiana e vecchie locuzioni

A livello letterale, “menare gramo” significa “condurre una vita misera, sventurata, di stenti”. Il verbo menare non va inteso nel suo senso più comune moderno – “picchiare” o “colpire” – ma nel senso più antico di “condurre, portare avanti”. Oltre a essere presente in numerosi testi medievali e rinascimentali, questo significato sopravvive ancora in locuzioni come “menare una vita” o “menare per il naso”. Il sostantivo gramo, dal canto suo, deriva dal latino grāmis o grāmus, con il significato di “scarso”, “miserabile”, “infelice”. Non a caso la parola, anche da sola, continua a indicare qualcosa di povero, di misero, come nella formula povero gramo.

Dunque, menare gramo significa letteralmente “condurre la sventura”, “portare sulle spalle una condizione negativa”. È un modo di dire che condensava, in poche sillabe, l’idea di un destino avverso, di una vita che procede arrancando, costretta a muoversi dentro la scarsità e l’infelicità. Nel suo uso figurato – quello prevalentemente attestato nei secoli – la locuzione esprimeva un giudizio severo, a volte pietoso, più spesso fatalista: chi mena gramo non è semplicemente sfortunato, ma vive in un’inesorabile dimensione di miseria esistenziale.

Le radici della locuzione affondano nell’italiano antico. Già Dante Alighieri usa il termine gramo in diversi punti della Commedia, spesso associandolo a condizioni di dolore o di perdita. In Inferno, ad esempio, si parla di “grama gente” per indicare anime tormentate, mentre in Purgatorio il termine è carico di un senso di minorità, fragilità, mancanza. Anche Boccaccio e gli autori del Trecento utilizzano l’aggettivo con significati affini. L’espressione completa menare gramo si diffonde successivamente, trovando spazio soprattutto nella lingua popolare tra Seicento e Ottocento. Era un modo di dire che poteva riferirsi tanto alla povertà materiale quanto a una condizione di generale sfortuna esistenziale: perdita di lavoro, malattie, fallimenti, lutti, una vita condotta “a fatica”.

Si tratta, in un certo senso, di un concentrato di cultura: un’espressione che parla del modo in cui gli italiani del passato percepivano la malasorte, la vita difficile, la precarietà delle condizioni umane. L’idea di “menare” sottolinea la continuità della condizione negativa, quasi fosse un peso da trascinare giorno dopo giorno. La parola gramo, con la sua durezza fonetica e la sua breve incisività, contribuisce a fissare l’immagine di uno stato di miseria che non lascia respiro. L’espressione non invita alla ribellione, né suggerisce possibilità di riscatto: fotografa piuttosto una condizione considerata ineluttabile, forse anche intrisa di quella sfumatura fatalistica che caratterizzava buona parte della cultura popolare italiana.

La locuzione oggi

Oggi la locuzione è quasi completamente scomparsa. Di gramo resta qualche eco in testi letterari, in dizionari storici, o nella voce di alcuni anziani che conservano parole del lessico dialettale o regionale. La sua scomparsa dice molto su come la lingua cambi: termini legati a condizioni di povertà stabile o a una visione fatalistica della vita tendono a scomparire man mano che le società evolvono, non perché la povertà stessa svanisca, ma perché cambiano gli immaginari. La lingua contemporanea, più rapida e globalizzata, preferisce espressioni come “va male”, “è un disastro”, “è un periodo no”, che attenuano o banalizzano quel senso di condizione esistenziale irrimediabile che invece menare gramo portava con sé.

Eppure recuperare locuzioni come questa non significa indulgere alla nostalgia, ma ricordarsi della ricchezza del nostro lessico, della capacità della lingua italiana di raccontare mondi, tempi e sensibilità molto diverse. Le espressioni idiomatiche sono una forma di memoria culturale: continuano a parlarci, anche quando non le usiamo più. Menare gramo ci ricorda una certezza antica: che la lingua, come la vita, cambia continuamente, ma lascia dietro di sé tracce preziose, piccoli fossili verbali che raccontano chi siamo stati e come abbiamo guardato la nostra esistenza.

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