Lingua italiana: “fare i fighi”, origine dell’espressione

23 Novembre 2025

Scopriamo assieme qual è l'origine dell'espressione della lingua italiana "fare i fighi" e come si è diffusa tra gli italofoni.

Lingua italiana: "fare i fighi", origine dell'espressione

Nella lingua italiana, l’espressione «fare i fighi» o «fare il figo» viene di solito interpretata come un atteggiamento di ostentazione: significa darsi un tono, mostrarsi più brillanti, più affascinanti o più importanti di quanto si sia realmente. È un modo di dire ormai colloquiale e leggero, diffuso soprattutto tra i giovani, che porta con sé l’idea di posa, esibizionismo, vanteria. Ma ciò che molti parlanti ignorano è che questo modo di dire non nasce da «figo» nel senso moderno di «attraente», bensì da una storia molto più lunga, articolata e sorprendente: quella del gesto dell’«alzar le fiche», cioè il famigerato gesto del pugno chiuso con il pollice inserito tra le dita, attestato già nella letteratura medievale.

Lingua italiana e Divina Commedia

Per comprendere l’origine profonda di «fare i fighi» bisogna dunque tornare indietro di alcuni secoli, quando la parola «fica» non indicava ancora il significato oggi prevalente di «organo sessuale femminile», ma veniva invece associata a un gesto di scherno, disprezzo e spesso blasfemia. Nell’immaginario di molti lettori moderni, infatti, la voce «fica» non può che suggerire l’idea di volgarità legata alla sfera sessuale.

Non stupisce quindi che l’espressione fare le fiche sia stata spesso ricondotta al gesto osceno delle mani che imitano i genitali femminili. Tale interpretazione è avvalorata da varie testimonianze linguistiche e dallo stesso Vocabolario della Crusca, fin dalla sua prima edizione del 1612, che descrive il gesto come una manifestazione di scherno e di offesa ottenuta inserendo il pollice tra indice e medio.

Ma per comprendere la portata dell’espressione nel Medioevo, è particolarmente significativo analizzare il celebre passo della Commedia di Dante, in Inferno, canto XXV. Qui il ladro pistoiese Vanni Fucci, dopo aver parlato con Dante e Virgilio nella bolgia dei ladri, conclude la propria invettiva contro Dio con queste parole:

«Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: “Togli, Dio, ch’a te le squadro!”»

Il gesto di Vanni Fucci, unito alla sua imprecazione, è di una violenza simbolica impressionante: alzare le fiche significa rivolgere a Dio un insulto paragonabile a una vera e propria bestemmia visiva. Le miniature trecentesche che illustrano i manoscritti della Commedia mostrano infatti l’uomo con una o due mani a pugno, dalle quali emerge il pollice, confermando la lettura tradizionale del gesto.

Tuttavia, l’interpretazione puramente oscena dell’espressione non è sufficiente a spiegare la sua origine. Studi più recenti, come quelli di Andrea Mazzucchi, suggeriscono infatti una pista più convincente: il riferimento non sarebbe alla forma dei genitali femminili, bensì a un significato veterinario antico della parola «fico» o «fica», intesa come tumore o escrescenza carnosa che si sviluppa sui genitali di alcuni animali da tiro, in particolare muli e asini. Nel gesto del «fare le fiche», dunque, il pollice rappresenterebbe proprio questa escrescenza, e l’atto di mostrarla sarebbe un insulto profondamente legato all’immaginario animale e alla sua valenza dispregiativa.

Questo dettaglio diventa particolarmente suggestivo se si pensa che lo stesso Vanni Fucci, nel canto precedente, aveva affermato: «Vita bestial mi piacque e non umana, sì come a mul ch’i fui», paragonandosi esplicitamente a un mulo. Così, quando alza le fiche verso Dio, alza metaforicamente le «sue» escrescenze bestiali, conferendo al gesto una coerenza simbolica perfettamente medievale.

Da questa lunga storia nasce dunque la base semantica di espressioni come «fare le fiche», «fare le fiche in faccia», e più tardi – attraverso trasformazioni linguistiche e slittamenti di significato – «fare i fighi». Quest’ultima forma, oggi comune, è frutto di una reinterpretazione moderna e popolare: il plurale fighi/fico, nel senso di «persona attraente o brillante», ha finito per reinterpretare in chiave positiva e gergale un’espressione storicamente legata allo sberleffo.

Da ieri a oggi

«Fare i fighi» oggi significa dunque ostentare qualità che spesso non si possiedono, ma porta ancora con sé un’eco lontana dell’antico gesto di sfida, insolenza e spavalderia. Non più un insulto rivolto a un superiore, come avveniva nel Medioevo, ma una posa esibita di chi vuole mostrarsi disinvolto o superiore agli altri.

Come spesso accade nella storia della lingua, la trasformazione semantica è totale: ciò che nasceva come vilipendio, offesa o bestemmia si è gradualmente convertito in un modo di dire scherzoso, leggero, quotidiano. Eppure, dietro l’apparente banalità di «fare i fighi» sopravvive, inconsapevole ma affascinante, l’ombra lunga della tradizione linguistica medievale, dei commenti figurati della Commedia, delle miniature in cui il gesto viene immortalato, dei significati tecnici del lessico veterinario e delle impennate simboliche della cultura popolare.

Capire questa storia significa penetrare uno dei meccanismi più profondi della lingua: la capacità di rinnovarsi, trasformare i significati, conservare tracce del passato sotto la superficie delle parole comuni. Anche a costo di sorprendere chi, usando l’espressione «fare i fighi» per indicare un semplice atteggiarsi, ignora che essa affonda le sue radici in un gesto antichissimo, violento, irridente e, per certi aspetti, perfino sacrilego.

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