Nella lingua italiana capita spesso che alcune parole, pur avendo una forma ufficiale e corretta, generino confusione nell’uso quotidiano. È il caso di “procrastinare”, verbo che significa rinviare, rimandare, differire a un tempo futuro. Una parte dei parlanti, infatti, tende a utilizzare o a scrivere la variante deformata “procastinare”, che tuttavia non ha fondamento né etimologico né lessicografico.
Il fenomeno non è raro: molte parole lunghe, di origine dotta o che contengono sequenze consonantiche meno familiari, finiscono per essere adattate in forme semplificate. Ma in questo caso il problema non è soltanto ortografico: riguarda anche la comprensione del percorso etimologico del termine e, di conseguenza, la sua corretta pronuncia e scrittura.
Lingua italiana: l’etimologia di “procrastinare”
Per stabilire quale sia la forma corretta, occorre tornare alle origini. “Procrastinare” deriva dal latino procrastinare, verbo composto da due elementi:
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pro- = “avanti, in avanti”;
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crastinus = “del domani”, a sua volta da cras = “domani”.
Il significato letterale è dunque “rinviare a domani”. È evidente come il senso etimologico coincida perfettamente con l’uso attuale: procrastinare significa spostare a un futuro indefinito (spesso con l’idea di una scelta evitante o pigra) ciò che dovrebbe essere fatto nel presente.
In latino il termine è ampiamente attestato, sia in testi giuridici sia in contesti morali e filosofici. Il verbo passa direttamente alle lingue romanze e al lessico dotto italiano senza subire variazioni sostanziali.
Perché nasce l’errore “procastinare”
Se “procrastinare” è la forma corretta e documentata, da dove deriva allora l’errata variante “procastinare”?
Si tratta di un tipico caso di sincope consonantica, cioè la caduta di una consonante ritenuta superflua o difficile da pronunciare. La sequenza -cras- tra due consonanti (pro-cras-tinare) può sembrare “ostica”, e molti parlanti, inconsciamente, la semplificano eliminando la r centrale: da qui la diffusione di “pro-cast-inare”.
Il meccanismo psicologico è simile a quello che porta a deformazioni in altre parole: basti pensare a “conoscenza” che diventa “cognoscenza” per alcuni o, al contrario, a “obbligo” che viene talvolta ridotto a “obligo”. In tutti questi casi si tratta di errori di ipercorrettismo o di semplificazione fonetica.
Le attestazioni nei dizionari
Se consultiamo i principali vocabolari italiani – Treccani, Zingarelli, Devoto-Oli – troviamo solo ed esclusivamente la voce “procrastinare”. Nessuna fonte lessicografica accredita “procastinare”, che è considerata una forma errata, un refuso o una deformazione popolare.
Lo stesso accade nelle lingue sorelle: in francese esiste procrastiner, in spagnolo procrastinar, in inglese to procrastinate. In tutti i casi la presenza della r dopo pro- è costante e imprescindibile.
Questo dettaglio rafforza ulteriormente l’idea che “procastinare” sia una variante senza alcun fondamento storico o linguistico.
L’uso attuale e la percezione della parola
Nonostante la chiarezza delle fonti, “procastinare” continua a circolare, soprattutto nel linguaggio informale, sul web e nei social network. È facile imbattersi in post o commenti in cui la grafia scorretta viene adoperata senza consapevolezza.
La ragione è duplice:
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Difficoltà fonetica: la sequenza -cras- è inconsueta e richiede più attenzione nell’articolazione;
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Diffusione virale degli errori: una volta che una forma scorretta circola ampiamente in rete, tende a consolidarsi come se fosse legittima, soprattutto per i parlanti meno abituati a verificare le fonti linguistiche.
Tuttavia, in contesti formali – saggi, giornalismo, accademia – “procastinare” è percepito come un errore evidente e penalizzante.
Il valore concettuale di “procrastinare”
Oltre all’aspetto ortografico, “procrastinare” è un termine che porta con sé un valore concettuale molto interessante. Indica infatti una tendenza psicologica e comportamentale molto diffusa: quella di rimandare, di posticipare impegni e responsabilità.
In psicologia il fenomeno della procrastinazione è studiato come atteggiamento che può derivare da ansia, perfezionismo, paura del fallimento o semplice disorganizzazione. L’italiano, come molte altre lingue, ha ereditato dal latino non solo la parola, ma anche un concetto universale e profondamente umano.
Ecco perché è importante salvaguardarne la forma corretta: essa non è solo una questione di grafia, ma anche di fedeltà a un’eredità linguistica e culturale che dura da secoli.
Tra “procrastinare” e “procastinare” non c’è alcun dubbio: la forma corretta è la prima, coerente con l’etimologia latina, riconosciuta da tutti i vocabolari e in linea con le corrispondenti parole delle lingue straniere.
“Procastinare” è invece un errore diffuso, frutto di semplificazione fonetica e di circolazione incontrollata nel linguaggio informale. Non va quindi considerato accettabile in contesti formali o colti, anche se la sua diffusione spiega quanto gli usi comuni possano talvolta deviare dalla norma.
In definitiva, usare “procrastinare” in modo corretto significa rispettare non solo la grammatica e la storia della nostra lingua, ma anche dare il giusto peso a un concetto che descrive un tratto molto umano: la tentazione, sempre presente, di rimandare a domani ciò che dovremmo fare oggi.