Lingua italiana: si dice e si scrive “perso” o “perduto”?

4 Luglio 2025

Scopriamo se secondo le norme grammaticali della lingua italiana ci sono differenze tra le due varianti "perso" e "perduto, oppure sono identiche.

Lingua italiana si dice e si scrive perso o perduto

Nel vasto panorama della lingua italiana, alcune parole raccontano una storia più lunga e articolata di quanto possa apparire a prima vista. È il caso delle forme verbali “perso” e “perduto”, entrambe participi passati del verbo “perdere”, che coesistono nell’uso contemporaneo, generando spesso dubbi tra i parlanti. La domanda è legittima: si può usare indifferentemente “ho perso il treno” e “ho perduto il treno”? E perché esistono due forme per esprimere la stessa azione? Per rispondere, bisogna esplorare l’evoluzione della lingua, la tradizione letteraria e le tendenze dell’uso moderno.

abbiamo perso/perduto l’enorme varietà della lingua italiana?

La coesistenza di due forme non è un’anomalia isolata: la lingua italiana, infatti, presenta in diversi casi una “sovrabbondanza” formale, ovvero la presenza di più possibilità per esprimere lo stesso valore grammaticale. Tra i participi passati, accanto a “perso/perduto”, troviamo anche le coppie “visto/veduto” e “sepolto/seppellito”. Tuttavia, come mostrano gli studi linguistici e i dati dei corpora, queste coppie non hanno tutte lo stesso comportamento evolutivo.

“Sepolto” e “seppellito” sono forme entrambe già presenti nel latino classico: Prisciano, grammatico del VI secolo, annotava la preferenza per “sepultum” ma ammetteva l’esistenza della variante “sepelitum”. La doppia forma nasce, quindi, già in epoca antica, e si è mantenuta nella lingua italiana senza che una delle due estromettesse l’altra. Anzi, ancora oggi “sepolto” e “seppellito” convivono pacificamente, usati con frequenze diverse ma senza che l’una renda l’altra arcaica o scorretta.

Diverso è il caso di “perduto” e “perso”. Entrambe derivano dal latino perditum, ma “perso” è il risultato di una rielaborazione analogica e fonologica sviluppatasi nei secoli. Le due forme hanno dunque origini simili, ma percorsi evolutivi distinti. Nella storia della lingua, “perduto” è stato a lungo la forma dominante, mentre “perso” ha guadagnato terreno solo nel XX secolo, come mostra l’analisi dei corpora di Google Books: “perso” comincia a crescere a partire dagli anni ’20 del Novecento, e oggi è molto più diffuso nel parlato quotidiano, anche se nei testi scritti “perduto” conserva ancora una buona vitalità.

Il linguista Gerhard Rohlfs, nella sua Grammatica storica della lingua italiana, rilevava già nel 1968 la tendenza della lingua italiana a preferire le forme forti (come “perso”, “cotto”, “reso”) a quelle deboli in -uto (come “perduto”, “cociuto”, “fenduto”). Tuttavia, notava anche la resistenza di alcune forme deboli, che continuavano a sopravvivere, seppure marginalmente. L’uso quotidiano, si sa, è spesso più conservatore di quanto si creda.

Un dato interessante emerge anche dallo studio condotto sul corpus del quotidiano “la Repubblica” (1985-2000): in questo caso, “perso” è usato 3,8 volte più frequentemente di “perduto”, mentre per “visto” e “veduto” il rapporto è addirittura di 226:1. Ciò dimostra che “veduto” è ormai quasi scomparso, mentre “perduto” resta ancora in uso, specie in contesti letterari o più formali.

Proprio il contesto è la chiave per comprendere la sopravvivenza di “perduto”. Titoli famosi come Paradiso perduto, Alla ricerca del tempo perduto o I predatori dell’arca perduta hanno contribuito a mantenere viva la forma, legandola a un registro aulico e nobile. In questi casi, una sostituzione con “perso” suonerebbe stridente, se non grottesca. L’eco del francese perdu nella traduzione dell’opera di Proust, e la scelta stilistica di Spielberg nel titolo italiano del suo film del 1981, rivelano quanto la forma “perduto” sia culturalmente radicata.

Ma che cosa succede nel parlato contemporaneo? Qui emerge un altro elemento fondamentale: la percezione soggettiva della forma. È significativo l’aneddoto di una bambina nata nel 2003 che rifiuta categoricamente l’uso di “perduto”, sostenendo che “si dice solo perso”. Ciò dimostra come la sensibilità linguistica delle nuove generazioni tenda a rifiutare ciò che suona “antico” o desueto, anche se grammaticalmente corretto. In questo senso, “perso” appare più moderno, diretto, quotidiano; “perduto” assume connotazioni di solennità, di eleganza, a volte persino di malinconia.

La lingua è varietà

La questione non è solo grammaticale, ma culturale. L’ideale di semplificazione e unificazione linguistica, espresso da Alessandro Manzoni, puntava a eliminare ogni ridondanza: per lui, “aver più modi di significar una cosa stessa non è ricchezza, ma sopraccarico”. Non a caso, nelle edizioni successive dei Promessi sposi, Manzoni corresse molte forme deboli in favore di quelle forti. Tuttavia, anche lui non fu sempre coerente: nel capitolo 5 dell’edizione del 1840 usa sia “perdute le zanne” che “cause perse”. Un segno, forse, che l’alternanza poteva rispondere a esigenze stilistiche più che normative.

A difesa della pluralità linguistica si schierò invece Giacomo Leopardi, che nel 1817 rivendicava il valore della varietà: “credo che il tesoro della lingua si voglia piuttosto accrescere, potendo, che scemare”. È un invito a considerare la ricchezza espressiva più che la semplificazione sistematica. Per approfondire l’argomento rimandiamo a questo esaustivo articolo redatto dall’Accademia della Crusca: Perso o perduto.

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