Nello scrigno enorme della lingua italiana, le espressioni “lavoro nero” e “lavoro in nero” coesistono, spesso usate in modo intercambiabile. Ma dietro questa apparente equivalenza si nasconde un interrogativo sottile: quale delle due forme è più corretta, più radicata, o più espressiva? E quali sono le origini storiche e culturali che hanno portato alla formazione di queste locuzioni?
Per rispondere, bisogna partire dal cuore simbolico di entrambe: il colore nero. Come osservato da Rita Fresu nella voce Colori, nomi di dell’Enciclopedia dell’italiano, i cromonimi — cioè i nomi dei colori — vengono spesso impiegati in italiano con forte valenza simbolica, veicolando significati che vanno ben oltre la percezione visiva. Il nero, in particolare, si associa tradizionalmente a concetti negativi: illegalità (borsa nera, mercato nero, toto nero), sventura (giornata nera, vedere nero), malvagità (anima nera, uomo nero) e morte (cronaca nera). La locuzione “lavoro nero” si inserisce perfettamente in questa costellazione semantica, esprimendo una condizione di clandestinità e sfruttamento.
Lingua italiana: l’origine di “lavoro nero”
La locuzione “lavoro nero” è relativamente recente nella storia della lingua italiana. Secondo il Dizionario di parole nuove 1964-1984 di Cortelazzo e Cardinale, la sua prima attestazione risale al 1977 nel romanzo Fantasmi italiani di Alberto Arbasino. L’espressione vi appare come sinonimo di “lavoro sommerso”, indicando un’attività lavorativa svolta senza tutela legislativa né contrattuale, e quindi al di fuori dei limiti imposti dalla legge e dalle garanzie sindacali.
Tuttavia, le ricerche sui giornali d’archivio consentono oggi di retrodatare l’uso di “lavoro nero” fino agli anni Trenta del Novecento, e più precisamente al 2 giugno 1932, quando il Corriere della Sera riporta una riunione internazionale dell’artigianato a Parigi dove si menziona il “cosiddetto ‘lavoro nero’”, con le virgolette a indicare una novità lessicale. Negli anni successivi, il termine viene impiegato sempre più spesso per riferirsi a forme di lavoro abusivo o non dichiarato, come nel caso dei parrucchieri improvvisati che esercitano a domicilio, eludendo le normative sulla chiusura festiva.
È interessante notare che l’espressione deriva probabilmente dal tedesco, come accade per molte altre locuzioni “nere” della lingua italiana. Il termine Schwarzarbeit, letteralmente “lavoro nero” in tedesco, indica esattamente il lavoro svolto senza registrazione, contributi o assicurazioni. Allo stesso modo, schwarz hören è ascoltare la radio senza abbonamento, e schwarz fahren viaggiare senza biglietto. In questo senso, il nero è il colore del furtivo, dell’illegale, dell’occulto.
“Lavoro nero” vs “lavoro in nero”
Se “lavoro nero” ha quindi origini ben precise e una diffusione consolidata, quando nasce la variante “lavoro in nero”? Secondo le fonti archivistiche del Corriere della Sera, questa forma compare per la prima volta nel 1986, ed è costruita sul modello di espressioni come “lavorare in fabbrica”, “in banca”, “in squadra”. L’uso della preposizione “in” suggerisce una collocazione spaziale o ambientale: il soggetto lavora all’interno di una condizione sommersa, cioè “nel nero”, metaforicamente.
“Lavoro in nero” ha conosciuto un notevole successo, raggiungendo centinaia di occorrenze nei media. La sua diffusione può essere attribuita alla sua chiarezza espressiva e al tono colloquiale, che lo rende facilmente comprensibile. Tuttavia, non si tratta della forma originaria, bensì di una rielaborazione recente e, in qualche misura, “popolare”.
Più curiosa e rara è invece la variante “lavoro al nero”, attestata dal 1995, ma usata quasi esclusivamente in contesti ironici o parodici. L’espressione si rifà a costruzioni come “lavorare a domicilio”, “a cottimo”, ma non ha mai avuto una vera penetrazione nell’uso comune.
Una scelta di registro
Di fronte alla coesistenza di “lavoro nero” e “lavoro in nero”, non si può parlare di una forma “giusta” e di una “sbagliata”, quanto piuttosto di sfumature stilistiche e di registro. “Lavoro nero” è più breve, incisivo, e richiama direttamente il linguaggio istituzionale, sindacale, giornalistico. È anche la forma storicamente documentata più antica. “Lavoro in nero”, invece, è più descrittiva e colloquiale, e si presta meglio a un uso parlato e quotidiano.
Anche i sinonimi si sono moltiplicati nel tempo: da “lavoro sommerso” a “lavoro non contrattualizzato”, fino a un colorito vocabolario della flessibilità lavorativa, in parte ridimensionato con il Jobs Act del 2014. In ogni caso, l’espressione “lavoro nero” ha mantenuto la sua forza evocativa, divenendo simbolo di un’economia parallela e irregolare, spesso frutto di sfruttamento e ingiustizia.
Il dubbio tra “lavoro nero” e “lavoro in nero” è meno un problema di correttezza grammaticale che una questione di prospettiva linguistica e culturale. Entrambe le forme sono oggi ampiamente accettate, ma rispondono a dinamiche comunicative diverse. La prima ha il rigore dell’etichetta ufficiale, la seconda la plasticità della lingua viva. In ogni caso, entrambe rivelano come la lingua sappia raccontare — con un solo colore — interi fenomeni sociali, economici e morali. Perché in fondo, anche il lessico del lavoro ha le sue ombre. Per saperne di più rimandiamo all’esaustivo articolo redatto dall’Accademia della Crusca: Lavoro nero, lavoro in nero o lavoro usa-e-getta?