La parola seità, ormai quasi del tutto scomparsa dall’uso comune, sopravvive come un frammento prezioso nella lingua italiana: una testimonianza lessicale di un tempo in cui la riflessione sull’identità individuale si esprimeva con una profondità e una finezza oggi difficilmente replicabili. È un termine di rara eleganza, appartenente al registro letterario, che affonda le sue radici nel pronome sé e che trae il suo modello morfologico da parole dotte come aseità — concetto filosofico che indica l’essere che esiste di per sé, senza dipendere da altro.
Lingua italiana: “seità” e Grande Dizionario Storico Della Lingua Italiana
Nel Grande Dizionario Storico Della Lingua Italiana, seità è definita come “individualismo”, ma questa traduzione moderna rischia di appiattire le sfumature di significato originarie. Seità non è semplicemente la rivendicazione dell’io contrapposto agli altri, bensì la chiusura, la concentrazione profonda dell’individuo su se stesso. Il termine evoca una forma d’essere intensa, raccolta, quasi solipsistica: la condizione di chi si identifica pienamente con la propria interiorità, fino a escludere — o almeno a sospettare — ogni relazione autentica con il mondo esterno.
Uno degli usi più emblematici del termine si trova in Tommaso Landolfi, scrittore raffinato e visionario, il quale in una sua opera scrive:
“Negli stessi volti femminili non scorgevo se non una cifra incomprensibile, gelosa, annodata su se medesima, custode d’egoismo, perlomeno di… di seità”.
In questa frase, seità non è semplicemente sinonimo di egoismo, ma suggerisce una condizione più complessa, quasi ontologica, di ripiegamento su sé. È come se ogni volto incontrato fosse un enigma impenetrabile, un mondo chiuso, separato, intatto nella propria essenza. La seità è dunque una forma d’esistenza che si sottrae alla comunicazione, che custodisce gelosamente il proprio mistero, rendendo ogni tentativo di comprensione esterna parziale o fallace.
Questo uso letterario rivela una delle funzioni più affascinanti della parola: descrivere non tanto un comportamento, quanto uno stato dell’essere. Non si tratta del semplice narcisismo dell’io moderno, ma piuttosto di una postura esistenziale: una autosufficienza inquieta, potremmo dire, che non aspira all’incontro ma alla permanenza nell’io. Non stupisce, allora, che il termine sia caduto in disuso: nel nostro tempo, dominato dalla comunicazione pervasiva e dall’illusione di trasparenza totale dell’individuo, la seità appare un’anomalia, forse persino una colpa. L’identità contemporanea è spesso orientata verso l’esteriorità, verso la rappresentazione pubblica di sé. L’idea di un essere ripiegato su sé stesso, impermeabile allo sguardo altrui, risulta sospetta.
Eppure, proprio per questo, seità risulta oggi più attuale che mai, seppur in senso critico. In un’epoca di ipervisibilità e costante esposizione, la possibilità di “essere per sé” — nel senso più profondo, esistenziale del termine — diventa una forma di resistenza. Tornare a parlare di seità significa riconoscere il diritto dell’individuo a custodire una zona di opacità, di silenzio, di interiorità irriducibile. Significa restituire valore a ciò che sfugge alla condivisione obbligatoria, al mercato delle identità sociali. Non è un caso che autori contemporanei come Zadie Smith o Jonathan Franzen abbiano parlato di “privacy interiore” come di un bene sempre più raro. La seità, con il suo suono desueto e quasi filosofico, offre una parola a questo bisogno.
Ma la seità non è soltanto una condizione esistenziale: è anche un problema sociale. Il suo modello, come suggerisce la parentela etimologica, è la aseità, concetto cardine della teologia scolastica. L’aseità è la qualità di Dio di essere causa di sé, di esistere in virtù della propria essenza. Trasferita dal divino all’umano, la seità diventa allora un’illusione tragica: l’illusione dell’individuo che si ritiene autonomo, autosufficiente, ma che è invece costantemente in relazione, anche quando rifiuta il mondo. È questo il paradosso della seità: essere insieme il massimo dell’individualità e il limite della comunicazione.
Italiano e lingua letteraria
Nel panorama letterario italiano, la seità resta un concetto marginale, ma estremamente evocativo. È un termine che ha conosciuto il silenzio e l’oblio, ma che, proprio in virtù della sua marginalità, conserva intatta la forza simbolica. Recuperarla oggi significa non soltanto arricchire il vocabolario, ma riattivare una riflessione profonda sull’essere, sulla solitudine, sull’identità. In un mondo che ci spinge a mostrarci costantemente, la seità ci invita a interrogarci su ciò che siamo quando non ci guarda nessuno.
In conclusione, seità è più di una parola dimenticata: è un frammento di pensiero, un lascito della nostra cultura che merita di essere riscoperto. È la traccia di un’antica consapevolezza: che l’essere umano, prima di essere pubblico, sociale, relazionale, è anche — e forse soprattutto — un sé. Un sé che pensa, che tace, che si raccoglie. Un sé che, nella sua misteriosa seità, sfugge a ogni definizione.