Lingua italiana: “cubare”, il significato del curioso verbo

12 Settembre 2025

Scopriamo assieme il significato di questo verbo della lingua italiana che ormai si legge solo in testi arcaici e qualche documento burocratico.

Lingua italiana: "cubare", il significato del curioso verbo

La lingua italiana, come tutte le lingue vive, custodisce al suo interno termini che, col tempo, sono caduti in disuso ma che continuano a raccontare una storia affascinante. Uno di questi è il verbo “cubare”, oggi percepito come arcaico, ma che ebbe nel passato un suo ruolo nella letteratura e nella tradizione linguistica.

L’etimologia latina del verbo della lingua italiana

Il verbo cubare deriva dal latino cubāre, che significava “giacere”, “stare distesi”. Il termine appartiene a una famiglia etimologica che ha lasciato tracce significative in molte lingue romanze e nello stesso italiano. Dal latino cubāre provengono, ad esempio, i termini “cubicolo” (la stanza in cui si giace, cioè la camera da letto), “incubare” (stare sopra, covare, e in senso figurato “maturare dentro di sé”) e “succube” (chi giace sotto, in posizione subordinata).

Questo campo semantico rimanda a una delle azioni fondamentali dell’essere umano: il giacere, il riposare, il dormire. È un verbo che descrive una condizione fisica essenziale, legata al corpo e al suo bisogno di quiete, ma che fin dall’antichità ha assunto anche un valore simbolico, connesso alla morte (il “giacere” eterno della tomba) e al desiderio (il giacere amoroso).

L’uso in italiano antico

In italiano, cubare conserva il significato latino di “giacere” e appare soprattutto nella lingua letteraria e poetica dei secoli passati. È un verbo intransitivo, e il suo impiego si colloca in contesti solenni o narrativi.

Un esempio illustre lo troviamo in Dante Alighieri, nella Commedia, dove il verbo viene utilizzato in riferimento a Ettore, l’eroe troiano:
«là dov’Ettore si cuba».
In questo passo, Dante impiega cubare per indicare il luogo in cui Ettore giace, cioè la sua tomba, fondendo in un’unica immagine il valore del riposo e quello della morte.

Questo uso dimostra come già nel Trecento il termine fosse percepito come solenne e letterario, non come parte del linguaggio quotidiano. La sua presenza nel poema dantesco gli conferisce dignità poetica e lo lega alla memoria epica, al destino dei grandi eroi del passato.

La progressiva scomparsa dall’uso

Con il passare dei secoli, il verbo cubare è caduto progressivamente in disuso. Già nel Rinascimento era avvertito come arcaico e sopravviveva più che altro in citazioni colte o nei testi che volevano richiamare atmosfere solenni e antiche.

A sostituirlo nella lingua comune è stato il verbo giacere, che ha mantenuto lo stesso significato di base ma si è imposto per la sua maggiore frequenza e adattabilità. Oggi cubare resta registrato nei dizionari come voce “antica” o “letteraria”, utile per comprendere i testi della tradizione ma raramente impiegata nella produzione contemporanea.

Differenze e sfumature

Rispetto a “giacere”, cubare portava con sé una sfumatura più netta di staticità e di solennità. Giacere può significare semplicemente “essere disteso” (in un letto, su un prato), mentre cubare evocava quasi sempre un giacere definitivo, senza movimento, spesso legato alla tomba o al sonno profondo. È significativo che Dante lo utilizzi per un eroe defunto, collocandolo così in un contesto in cui il verbo assume un valore insieme poetico e tragico.

Questa specificità semantica spiega forse perché il verbo sia stato abbandonato: il suo campo d’uso era ristretto, mentre “giacere” e altri verbi affini hanno avuto maggiore flessibilità.

Un’eredità etimologica

Sebbene cubare sia caduto in disuso, la sua eredità vive in altre parole italiane. Come accennato, termini come cubicolo e cuboide derivano dallo stesso ceppo latino. Anche espressioni di origine scientifica e medica, come incubazione, rimandano a quell’idea di “stare disteso sopra” o di “maturare stando fermo”.

Interessante è anche il legame con il sostantivo cubo, che a prima vista sembra distante. In realtà, l’etimologia di “cubo” risale al greco kýbos (“dado”), ma la somiglianza fonetica con cubare ha favorito nel tempo un’associazione che ha inciso sulla formazione di alcune parole composte.

Oltre al suo uso concreto, cubare racchiude un valore simbolico che ne spiega la permanenza nei testi letterari. Giacere non è solo una condizione fisica: è anche immagine della vulnerabilità umana, del bisogno di riposo e della transitorietà della vita. Nel Medioevo e nel Rinascimento, i verbi che indicavano il giacere erano spesso impiegati per evocare la morte come “sonno eterno”, un tema caro alla poesia e alla filosofia.

In questo senso, cubare non era un semplice sinonimo di “dormire” o “stare disteso”, ma una parola capace di suggerire la profondità di un destino universale.

Il fascino delle parole perdute

Studiare parole come cubare ci ricorda che la lingua non è un corpo statico, ma un organismo in continua evoluzione. Termini che un tempo erano vivi e significativi possono oggi sopravvivere solo nei testi letterari o nei dizionari. Tuttavia, proprio queste parole “perdute” hanno un valore prezioso: ci permettono di entrare in contatto con la sensibilità di epoche passate e di comprendere meglio il modo in cui gli scrittori costruivano immagini e significati.

Il verbo cubare, oggi arcaico, è un esempio di come la lingua italiana custodisca reliquie preziose della sua storia. Derivato dal latino cubare, significava “giacere” e veniva usato soprattutto in contesti solenni e poetici, come nel celebre passo dantesco su Ettore. Caduto in disuso a favore di “giacere”, sopravvive però nelle parole derivate e nella memoria letteraria.

La sua vicenda linguistica testimonia il legame profondo tra lingua e cultura: dietro un termine apparentemente marginale si nasconde una storia di simboli, di usi poetici e di eredità etimologiche che arricchiscono la nostra comprensione dell’italiano e della sua tradizione.

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