La lingua italiana, ricca di tradizione ma costantemente esposta alle influenze esterne, si trova spesso a dover “ospitare” parole e sigle provenienti da altre lingue, in particolare dall’inglese. Un esempio interessante è quello della sigla TV, abbreviazione di televisione, che ha dato origine a un piccolo ma significativo dibattito ortografico: è più corretto scrivere “tv”, mantenendo la forma siglata, oppure italianizzare la pronuncia in “tivù” o addirittura “tivvù”?
Il dubbio non è marginale, perché riflette il rapporto tra l’italiano e i forestierismi, tra scrittura e pronuncia, tra norme linguistiche e usi quotidiani. Analizziamo dunque le diverse possibilità.
La sigla “TV” nella lingua italiana
La forma originaria è l’acronimo TV, costruito a partire dal termine inglese television. In Italia, sin dagli anni Cinquanta, con la nascita della televisione pubblica, la sigla si è diffusa in tutte le sue funzioni: in grafia maiuscola per indicare il mezzo tecnologico, in minuscola (tv) quando si tratta di un uso comune e meno formale.
La sigla, secondo l’uso più tradizionale, non dovrebbe essere letta come una parola unica, ma come la sequenza di due lettere: ti-vù. È il principio stesso delle sigle: esse conservano le lettere originarie e si leggono come tali. Tuttavia, nel caso di TV, già a partire dagli anni Sessanta e Settanta, l’italiano ha iniziato ad adattare la pronuncia, trasformando le due lettere in un termine unico, foneticamente assimilato.
Non è un caso che nella scrittura quotidiana la sigla tv si sia affermata soprattutto nei testi giornalistici, negli elenchi di palinsesti o negli articoli di critica televisiva. Il suo vantaggio principale è la brevità e l’immediatezza. Tuttavia, presenta un piccolo inconveniente: la sua scrittura, in minuscolo, rischia talvolta di confondersi con sigle grafiche non legate al mondo dei media.
L’adattamento “tivù”
Per superare l’ambiguità e rendere più chiara la pronuncia, la lingua italiana ha elaborato la forma “tivù”, oggi molto diffusa. Questo adattamento segue una regola consolidata: trasformare le sigle in parole italianizzate, come accade con laser (da light amplification by stimulated emission of radiation), radar, o più recentemente ceo (per chief executive officer).
“Tivù” ha il vantaggio di rispettare la pronuncia effettiva che i parlanti attribuiscono a “TV”, rendendo la parola riconoscibile e stabile. È inoltre riportata nei principali dizionari dell’uso, come il Devoto-Oli e lo Zingarelli, che ne riconoscono pienamente la legittimità. In questo caso, dunque, la grafia non è più soltanto un’imitazione fonetica: diventa un prestito adattato e integrato, capace di funzionare in contesti diversi, dal giornalismo alla conversazione quotidiana.
La variante “tivvù”
Accanto a “tivù”, esiste anche la forma “tivvù”, che tenta di riprodurre più fedelmente la doppia consonante che si percepisce nella pronuncia. La sequenza fonetica, infatti, tende a raddoppiare la v, soprattutto quando il termine è accentato: la tivvù, vedere la tivvù.
Da un punto di vista strettamente linguistico, “tivvù” è una grafia più “fonetica”, che segue cioè la pronuncia reale. Tuttavia, non ha incontrato lo stesso successo della forma semplificata. I dizionari principali, infatti, preferiscono registrare tivù come grafia corretta, considerandola una scelta più pratica e meno marcata.
L’uso di “tivvù” resta dunque minoritario e appare più in testi letterari, giornalistici o ironici, dove l’intenzione è quella di rendere in modo più vivace e parlato la voce di un personaggio o l’immediatezza della comunicazione.
Un confronto con altri adattamenti
La questione non riguarda solo “tv”, ma rientra in una più ampia dinamica di adattamento delle sigle e dei forestierismi. Pensiamo a “pc” (per personal computer), che raramente viene scritto “pissi”, oppure a “cd” (compact disc), mai trasformato in “cidì”. Al contrario, alcune sigle hanno invece conosciuto una piena italianizzazione: “laser” o “radar” sono entrati stabilmente come parole comuni, senza che nessuno li percepisca più come sigle.
Perché allora “tivù” ha avuto più fortuna di “pissi” o “cidì”? Probabilmente perché la televisione, fin dal suo esordio, è stata percepita come fenomeno di massa, domestico e quotidiano. Il termine abbreviato doveva risultare facile da pronunciare anche da chi aveva scarsa dimestichezza con le lingue straniere o con le sigle tecniche. La trasformazione in parola unica era quasi inevitabile.
L’uso contemporaneo
Oggi, osservando i media, si nota una netta distribuzione:
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tv è la grafia più usata nei giornali, nei titoli e nei testi scritti che prediligono la brevità e la neutralità;
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tivù è preferita nei contesti colloquiali, pubblicitari o creativi, dove si vuole sottolineare la dimensione parlata e popolare;
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tivvù resta minoritaria, con un valore espressivo, ironico o stilistico.
Un esempio lampante viene dal linguaggio della televisione stessa: numerosi programmi e rubriche hanno scelto la forma “tivù” (come “TivùSat”, la piattaforma satellitare italiana), mentre nei palinsesti e negli articoli prevale la grafia “tv”.
Questo piccolo dubbio ortografico ci ricorda come la lingua italiana non sia un’entità statica, ma un organismo in continua trasformazione, capace di accogliere forestierismi e di plasmarli secondo i propri ritmi fonetici e culturali. In fondo, la scelta tra “tv”, “tivù” e “tivvù” dipende dal contesto e dall’intenzione comunicativa: formale, colloquiale o espressiva. La televisione, che di comunicazione vive, continua così a lasciare traccia persino nella scrittura delle sue iniziali.