Italiano: a che ora buongiorno deve diventare buonasera?

27 Agosto 2025

Scoriamo quale è l'orario, se c'è un orario preciso, in cui il saluto deve passare da "buongiorno" a "buonasera", secondo il bon ton italiano.

Italiano: a che ora buongiorno deve diventare buonasera?

Il dubbio sull’uso corretto di buongiorno e buonasera accompagna da tempo ogni parlante italiano. Sembra una questione banale, ma in realtà tocca la sensibilità linguistica, le consuetudini sociali e perfino le tradizioni regionali. Quando si deve dire buongiorno e quando invece buonasera? La risposta non è affatto univoca, ed è proprio questa sfumatura che rende la questione interessante dal punto di vista linguistico e culturale.

Italiano: l’origine delle formule

Le espressioni buongiorno e buonasera derivano ovviamente dalle locuzioni augurali buon giorno e buona sera. In origine, erano formule di augurio: non semplici saluti, ma desideri di benessere rivolti al prossimo. Dire “buon giorno” significava augurare che le ore della giornata fossero favorevoli, così come “buona sera” portava con sé l’auspicio di una serata serena.

Entrambe le formule sono attestate nell’italiano scritto già dal Trecento, epoca in cui la lingua si stava consolidando anche come veicolo della socialità quotidiana. Con il passare dei secoli, l’augurio è diventato saluto, e da formula piena si è arrivati anche alle versioni ridotte e colloquiali, giorno e sera, che ancora oggi sopravvivono soprattutto in contesti familiari o informali.

Il problema della soglia

La difficoltà sta nel definire il momento di passaggio tra buongiorno e buonasera. Diversamente da altre lingue, l’italiano non ha una parola intermedia paragonabile a good afternoon dell’inglese o al francese bon après-midi. Questo costringe i parlanti a stabilire soggettivamente, di volta in volta, se si è ancora nel campo del giorno o già in quello della sera.

Non esiste una norma ufficiale: i dizionari e i manuali di stile si limitano a registrare l’uso, senza imporre un confine netto. Tuttavia, le consuetudini sociali e le tradizioni locali influenzano fortemente questa scelta, tanto che ciò che appare naturale in una regione può sembrare precoce o tardivo in un’altra.

Le abitudini regionali

Il Salvastile di Giuseppe Patota e Valeria Della Valle, due tra i linguisti più attenti ai fenomeni dell’italiano contemporaneo, offre un esempio illuminante. In Toscana, ci si saluta con buonasera già dal primo pomeriggio, anche subito dopo pranzo. In Sardegna, invece, il passaggio avviene dopo il primo pasto della giornata, indipendentemente dall’ora: terminata la colazione, il buongiorno cede il posto al buonasera.

Queste varianti regionali mostrano come il linguaggio sia profondamente legato alla vita quotidiana e alle consuetudini alimentari o lavorative. In una cultura in cui il pranzo segna l’interruzione principale della giornata, è naturale che esso diventi anche lo spartiacque tra i due salutiLa percezione soggettiva della luce

Un altro criterio, diffuso in diverse zone d’Italia, è legato alla percezione della luce. Molti parlanti scelgono di dire buonasera solo quando il sole comincia a calare o quando si accendono le luci artificiali. In questo caso, la soglia non è determinata da un orario preciso, ma dall’esperienza visiva e atmosferica: la sera inizia quando la giornata “si spegne”.

Tuttavia, questa abitudine può entrare in conflitto con situazioni formali. Immaginiamo un incontro di lavoro alle cinque del pomeriggio d’estate, con il sole ancora alto: in quel caso, molti preferiscono mantenere il buongiorno per evitare un’impressione di eccessiva familiarità o di anticipazione.

Formalità e contesto sociale

Il grado di formalità del contesto influisce anch’esso sulla scelta. Nei rapporti professionali o istituzionali si tende a usare buongiorno fino a metà pomeriggio, spesso fino alle 17 o alle 18, mentre buonasera subentra in occasioni più mondane, come un incontro conviviale o un evento serale.

Nei rapporti informali, invece, la flessibilità è maggiore. È comune che due amici si salutino con buonasera anche in pieno pomeriggio, quasi come formula di complicità o di tono affettuoso.

Il dubbio “quando dire buongiorno e quando buonasera” dimostra che la lingua non segue sempre schemi rigidi. Le parole vivono nelle pratiche sociali e cambiano a seconda del contesto. Non si tratta tanto di stabilire un orario canonico – le 14, le 15 o le 18 – quanto di accettare che il confine tra i due saluti sia culturale, mutevole e persino personale.

Questa flessibilità è una ricchezza: ci permette di adattarci alle circostanze, di modulare il saluto in base al luogo, alla persona e all’atmosfera. È un piccolo esempio di come la lingua italiana sappia coniugare tradizione e libertà, regole condivise e variazioni individuali.

Buongiorno e buonasera racchiudono secoli di storia linguistica, usi sociali e sensibilità culturali. Non esiste un orario unico che segni il passaggio dall’uno all’altro, ma una serie di criteri che spaziano dalle abitudini regionali al ritmo della luce naturale, dalle consuetudini alimentari al grado di formalità del contesto.

In fondo, la bellezza della lingua sta anche in queste ambiguità, che rendono il parlante protagonista di scelte quotidiane, talvolta inconsapevoli ma sempre significative. Forse è proprio questo il messaggio che ci lascia la questione del buongiorno e del buonasera: la lingua non è mai soltanto un insieme di regole, ma uno specchio fedele delle nostre vite, dei nostri orari, delle nostre tradizioni.

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