Italiano: è corretto dire “signorina” a una donna nubile?

25 Giugno 2025

Scopriamo assieme tramite questo articolo se l'appellativo "signorina" dato a una donna nubile abbia senso o sia solo discriminatorio e sessista.

Italiano è corretto dire signorina a una donna nubile

Nell’ambito della lingua italiana e, nella fattispecie, nell’italiano contemporaneo, poche parole risultano tanto cariche di significati, ambiguità e controversie quanto l’appellativo femminile “signorina”. Oggi, il suo uso appare incerto, controverso, a tratti persino inopportuno, come segnale di un linguaggio che fatica ad aggiornarsi ai cambiamenti sociali e culturali che hanno investito la condizione femminile. Eppure, come dimostra un’attenta ricostruzione storica – ad esempio nel saggio Per la storia di ‘signorina’ – si tratta di un termine dal passato articolato, che ha attraversato secoli e mutamenti semantici profondi.

“Signorina”: origini e uso nell’italiano contemporaneo

Il termine “signorina” compare per la prima volta in italiano nel 1533, probabilmente derivato da “signorino” (attestato già nel 1501), oppure modellato sullo spagnolo señorita, o ancora come diminutivo di “signora”. Nella lingua italiana antica, tuttavia, non si usavano “signora” e “signore” come appellativi di rispetto: dominavano invece “madonna” e “messere”. Solo a partire dal Rinascimento, con l’influsso della cultura iberica, questi termini cominciarono a imporsi.

Per lungo tempo “signorina” designava giovani nobildonne, senza alcun riferimento allo stato civile. È solo nell’Ottocento che si consolida il significato oggi più comunemente inteso: “donna non sposata”. Una delle prime attestazioni in questo senso si trova nella commedia I mariti di Achille Torelli (1867). Questo passaggio segna l’inizio di una distinzione che, nel tempo, ha rivelato un’impronta discriminatoria: a una donna, a differenza di un uomo, si chiede (letteralmente) di presentarsi in base al proprio stato civile.

Una dissimmetria di genere

Il vero nodo problematico nell’uso attuale della parola “signorina” risiede proprio nella dissimmetria rispetto al maschile. L’uomo resta “signore” tutta la vita, sia che sia sposato o meno. Alla donna, invece, si impone un cambiamento nell’appellativo: “signorina” finché nubile, “signora” dopo il matrimonio. Come sottolineano i linguisti, questa disparità è comune a molte lingue europee, ma nel contesto italiano assume una particolare rilevanza culturale: l’allocutivo femminile riflette (e perpetua) una visione patriarcale, in cui la condizione coniugale della donna è vista come elemento centrale della sua identità pubblica.

Non a caso, già dagli anni Ottanta, l’uso di “signorina” è stato progressivamente scoraggiato nei contesti formali, soprattutto da parte di enti pubblici, giornalisti, intellettuali e rappresentanti del femminismo. Tuttavia, non è mai stata approvata alcuna legge che vietasse l’uso del termine. Solo una disposizione del Parlamento Europeo del 2009 consiglia, per motivi di neutralità di genere, di evitare appellativi che facciano riferimento allo stato civile della donna negli atti ufficiali.

Una parola in declino?

L’uso effettivo di “signorina” sta declinando anche nei testi letterari e nei registri medi di comunicazione. Se osserviamo il corpus di narrativa italiana contemporanea (come quello del PTLLIN, che raccoglie romanzi vincitori del Premio Strega e altre opere dal 1947 al 2006), notiamo un calo drastico nelle occorrenze: 609 per “signorina” contro le 2530 di “signora”, e un’ulteriore flessione a partire dagli anni Duemila.

Nei decenni passati, “signorina” era il termine più usato per indicare una giovane donna nubile, spesso connotata come più “distinta” e adulta rispetto alla “ragazza”. Ma oggi l’appellativo sembra fuori luogo, soprattutto perché non si usa il corrispettivo maschile (“signorino”), che sopravvive solo in registri ironici o letterari. In altri casi, come nel libretto della Bohème, il termine è impiegato con leggerezza affettuosa, ma non è più vivo nel linguaggio quotidiano.

Il caso più interessante, però, è la reazione ambivalente delle donne stesse. Alcune, soprattutto non sposate di una certa età, insistono ancora nel voler essere chiamate “signorina”; altre, soprattutto giovani, si offendono se sentono usare quel termine, considerandolo paternalistico o antiquato. Al contrario, alcune si risentono per l’uso prematuro di “signora”, come se fosse un marchio di vecchiaia. Celebre, in questo senso, è la reazione della deputata Pina Picierno che nel 2015, chiamata “signorina” da Matteo Salvini, rispose con un secco «Signorina lo dici a tua sorella!».

La difficoltà è quindi non solo linguistica, ma anche relazionale: la scelta dell’appellativo diventa un terreno minato, che mette in gioco la sensibilità personale, il contesto sociale e la percezione della propria età e identità.

Quale soluzione?

In contesti formali o pubblici, la scelta più prudente è oggi “signora”, a prescindere dallo stato civile. È il termine più neutro e rispettoso. In situazioni informali, soprattutto con donne molto giovani, può essere opportuno evitare del tutto titoli e rivolgersi direttamente con il nome di battesimo, previa richiesta cortese. L’uso del lei resta comunque preferibile nei rapporti non confidenziali.

In definitiva, il problema non è la parola in sé, ma la struttura culturale e sociale che la parola porta con sé. “Signorina” è un termine che oggi appare superato non solo per ragioni linguistiche, ma perché si lega a un’epoca in cui la condizione femminile era valutata in base al legame coniugale e non alla persona in sé. Superarlo, con attenzione e sensibilità, è un passo verso una lingua più equa e inclusiva, specchio di una società in trasformazione. Per saperne di più rimandiamo a questo esaustivo articolo di Paolo D’Achille: Signora o Signorina.

© Riproduzione Riservata