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Grammatica: si possono declinare al genere femminile i nomi di mestieri?

La Festa della donna ci dà l'occasione per parlare di un argomento su cui è bene soffermarsi più spesso: il femminile nei nomi riguardanti i mestieri.

Sebbene sia un tema di grammatica su cui riflettere quotidianamente, la Festa della donna ci dà l’occasione per parlarne con maggiore risonanza: la questione del femminile nei nomi di mestieri e professioni in italiano è un tema che suscita dibattiti accesi sia in ambito linguistico che culturale. La recente decisione dell’Ordine degli Architetti della Liguria di riconoscere ufficialmente il titolo di “architetta” ha riacceso la discussione sull’opportunità di declinare al femminile i nomi di professione, una tendenza che si sta diffondendo in tutta Europa. Tuttavia, non tutte le donne professioniste accolgono con favore questa innovazione, e alcune preferiscono mantenere il titolo maschile.

L’evoluzione del femminile nei titoli professionali: grammatica di genere oggi che è la Festa della donna

L’uso del femminile nei titoli di professione non è un fenomeno recente. Termini come “dottoressa” e “professoressa” erano inizialmente usati in modo ironico o spregiativo, ma oggi sono perfettamente accettati e rispettati. Ciò dimostra come le abitudini linguistiche possano evolversi nel tempo, superando le resistenze iniziali.

Uno degli ostacoli principali all’accettazione dei femminili professionali è di natura morfologica. Alcuni nomi si prestano facilmente alla declinazione al femminile, come “sarto” e “sarta” o “avvocato” e “avvocata”. Altri, invece, presentano maggiori difficoltà, come “ingegnere” e “ingegnera” o “infermiere” e “infermiera”. Questo accade perché in italiano i sostantivi in “-e” possono essere sia maschili che femminili (es. “il/la cantante”, “il/la custode”). Tuttavia, la lingua ha spesso introdotto suffissi specifici per marcare il femminile, come “-essa” (contessa, principessa) e “-trice” (attrice, direttrice), con risultati talvolta soddisfacenti, talvolta problematici.

Il peso della cultura sulla lingua

Oltre agli aspetti grammaticali, il dibattito sul femminile nei nomi di mestiere è influenzato da fattori culturali. Molti mestieri e professioni hanno avuto storicamente una connotazione maschile, riflettendo una società che per secoli ha relegato le donne a ruoli secondari. Di conseguenza, l’introduzione del femminile viene spesso percepita come una forzatura. Un esempio è il titolo di “maestro”, che si accetta senza problemi per un’insegnante di scuola primaria, ma che molte direttrici d’orchestra rifiutano in favore di “maestro”.

Un altro caso emblematico è quello di “medico”, che rimane invariato per uomini e donne, mentre “medica” non ha avuto fortuna. Lo stesso accade con “giudice” e “ministro”, dove la forma femminile incontra più resistenze rispetto a “avvocata” o “architetta”. Questa differenza deriva spesso dal prestigio sociale associato alla professione: i titoli più elevati tendono a conservare la forma maschile più a lungo.

La resistenza al cambiamento

Se la lingua fosse regolabile d’ufficio, si potrebbe stabilire che i nomi di mestiere in “-e” rimangano invariabili per entrambi i generi. Tuttavia, la lingua evolve attraverso l’uso e le consuetudini, non attraverso imposizioni. L’italiano, infatti, mostra una tendenza naturale a cercare una forma specifica per il femminile, anche quando non sarebbe morfologicamente necessaria. Per esempio, “falegname” potrebbe teoricamente restare invariato, ma si sta diffondendo l’uso di “falegnama”.

Alcuni termini hanno trovato una soluzione consolidata nel tempo. “Cassiere” ha dato origine a “cassiera”, “assessore” a “assessora”, e “infermiere” a “infermiera”. In altri casi, invece, la transizione è ancora in corso, come per “pastore/pastora” e “difensore/difensora”. L’uso e l’accettazione di queste forme dipendono dall’abitudine e dalla frequenza con cui vengono utilizzate.

Professione, titolo e appellativo

Un aspetto complesso è la distinzione tra nome della professione e titolo con cui ci si rivolge a chi la esercita. “Avvocato” è sia il titolo sia il nome della professione, mentre “medico” è il nome della professione ma non viene usato come appellativo (si dice “Dottor Rossi” e non “Medico Rossi”). Questa sovrapposizione crea difficoltà nel declinare il femminile. Dire “Maria è avvocata” è accettabile, ma “Maria fa l’avvocata” suona meno naturale rispetto a “Maria fa l’avvocato”.

La questione del femminile nei nomi di professione riflette un cambiamento sociale in atto e si inserisce in un dibattito più ampio sulla parità di genere. Sebbene la lingua italiana abbia meccanismi per adattarsi a nuove esigenze, il processo è graduale e non privo di resistenze. La chiave è l’uso: più una forma diventa comune, più sarà accettata.

Per questo motivo, la scelta tra “architetta” e “architetto” o “ingegnera” e “ingegnere” dovrebbe essere lasciata alla sensibilità di chi esercita la professione, senza imposizioni, ma con la consapevolezza che la lingua è uno specchio della società e del suo progresso. Per saperne di più consigliamo questo pregnante articolo di Vittorio Coletti pubblicato dall’Accademia della Crusca: Nomi di mestiere e questione di genere.

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