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Valeria Parrella, “Salvi la tua vita solo se hai le energie interne per salvartela”

Intervista a Valeria Parrella sul suo libro "Almarina" per riflettere sulla condizione delle carceri in Italia, sul ruolo salvifico dell’insegnamento e dell’insegnante e sulla possibilità di trovare il proprio posto nel mondo

Sentire la voce di Valeria Parrella e immaginarla sul suo balcone, illuminato e riscaldato dalla luce primaverile, in una casa di un quartiere popolare di Napoli. Dove il festoso cinguettio degli uccellini si accompagna al fruscio degli alberi mossi dal vento che proviene dal mare. Ascoltare le sue parole e rifletterci su, a lungo. E, poi, provare a mettere per iscritto la nostra conversazione.

Un dialogo – informale e amichevole – che partendo dai temi affrontati nel suo romanzo Almarina – edito da Einaudi nel 2019 e fra i finalisti al Premio Strega 2020 – ci ha portato a riflettere sulla condizione – tragica e condannabile – delle carceri in Italia, sul ruolo salvifico dell’insegnamento e dell’insegnante e sulla possibilità di trovare il proprio posto nel mondo e di stare bene a qualsiasi latitudine terrestre.

Il carcere sull’acqua

Nisida, ormeggiata come un vascello, è un carcere sull’acqua. A Nisida, Elisabetta Maiorano insegna matematica a un gruppo di giovani detenuti. Qui Elisabetta Maiorano conosce Almarina, una ragazzina sedicenne rumena, con una complicata e difficile situazione familiare e personale alle spalle. A Nisida, Elisabetta Maiorano decide di divenire il punto di partenza e di riferimento per quella ragazza. Decide di accogliere e ospitare in sé la fiducia e la speranza che Almarina le affida.

Almarina di Valeria Parrella

Almarina è la storia di un incontro che ti salva la vita, o almeno, ti permette di compiere quel passo necessario a cambiarla. Infatti, nonostante la voce di Almarina sia spesso in sottofondo, la giovane entra ed esce nel romanzo con i ricordi provenienti dal suo passato recente crudele e ingiusto. Tuttavia, è proprio Almarina a infondere in Elisabetta Maiorano la forza di salire le scale che le cambiano la vita. Cosa si consegnano l’una all’altra? Forse, la speranza di poter camminare insieme su una strada sconosciuta verso un futuro ignoto, che spaventa, ma che, forse, se si è in due, è meno difficile da percorrere. Ecco l’intervista a Valeria Parrella.

Parliamo dei grandi protagonisti di questo libro: Nisida e l’Istituto penale minorile che Nisida ospita. So che Lei ha svolto, insieme ad altri talentuosi colleghi scrittori, un periodo di volontariato presso il carcere di Nisida, tenendo un laboratorio di scrittura creativa. Cosa le è rimasta di quell’esperienza?

Io sì, ho fatto questo laboratorio di scrittura creativa con altri bravissimi scrittori napoletani. Ma io, in realtà, non lo volevo fare questo laboratorio. Non ci volevo entrare in carcere perché sapevo che una cosa è uscire da un carcere per adulti e una cosa è uscire da un carcere per minori. Quindi l’ho fatto, in realtà, per spirito civico, non per vera visione. E’ stata un’esperienza brutale e terribile, perché i ragazzi – come faccio dire alla professoressa Elisabetta Maiorano nel libro – non vedono in te la possibilità di fare qualcosa di diverso dallo stare in cella, ma un adulto che ti costringe a stare con la testa sui libri come tutti i ragazzi di quell’età.

E quindi tu capisci che è proprio inappropriata la carcerazione per i ragazzi giovani. Perché capisci che questi ragazzi hanno le stesse necessità e gli stessi bisogni dei tuoi figli. Io non riuscivo a non tornare a casa e guardare mio figlio in relazione a quei ragazzi.

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Lo strazio del carcere di Nisida sta infatti nella sua collocazione. Un posto magnifico territorialmente, ricco di bellezze paesaggistiche e caratterizzato da un mare cristallino. Cosa può insegnare a giovani con un passato difficile e un futuro incerto la bellezza di quel panorama paesaggistico? Lo splendore naturalistico può essere d’aiuto in un processo di presa di consapevolezza del reato compiuto e redenzione di esso?

Io non credo che possa aiutare. Riporto l’esperienza di una ragazza rom, che disse: “come sono stata contenta di venire qua, perché ho visto finalmente il mare”. E qui mi vengono gli echi del romanzo di Anna Maria Ortense “Il mare non bagna Napoli”, per cui chi vive nell’hinterland, povero, di Napoli non ha la possibilità di vedere il mare.

Quanto questa cosa aiuti nella riabilitazione? Non credo tanto, non credo che sia la bellezza del posto la cosa efficace. Certo i posti belli aiutano, però io credo che quello che veramente possa determinare la vita di quei ragazzi, oltre la carcerazione, è quel raccordo – quando ci si riesce – tra l’esperienza del carcere, che è molto motivante e la realtà quando ci ritorni. Se l’istituzione riesce a incanalarti in un percorso – per cui dopo vai in casa famiglia oppure ti trovano un lavoro – allora, si esce come uomini nuovi.

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Parliamo ora di Napoli, la città in cui la protagonista del romanzo Elisabetta Maiorano vive. La città che le ha salvato la vita dopo la morte del marito, dandole la forza, nella condizione di vedovanza, di alzarsi dal letto la mattina e di uscire fuori di casa. A lei Napoli ha mai salvato la vita? Se sì, cosa e come?

Io non so dire se Napoli mi ha salvato o non mi ha salvato la mia vita. Perché io vivo da sempre qui, i miei genitori sono napoletani: io non ce l’ho un’altra esistenza a cui paragonarmi. A me Napoli piace moltissimo: è una città bellissima è complicata. In questo momento sono sul mio balcone, in una casa in un quartiere molto popolare, dove c’è una grande e forte rete sociale.

Fino all’anno scorso le avrei detto che questa rete sociale ovvia ai problemi dell’istituzione ma la pandemia ci ha dimostrato che i problemi istituzionali sono problemi nazionali.
Io ho fatto carriera nella mia città. Sono una scrittrice riconosciuta dalla mia città. Ho teatri, cinema nella mia città quando saranno riaperti.

Forse in questo senso Napoli mi ha salvato la vita, ma io penso che se uno sa che cosa vuole nella vita se lo trova. Leopardi scriveva da dietro una siepe e noi siamo qui, trecento anni dopo, a parlare di lui. Io credo che forse non c’è una latitudine in cui ti salvi la vita. Forse la vita te la salvi sei hai le energie interne tue per salvartela.

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La protagonista del romanzo si chiama Elisabetta Maiorano. Come è nato questo personaggio femminile? E quante persone che Lei, non come scrittrice ma come persona umana, ha incontrato nel corso della sua vita, sono confluite nel personaggio di Elisabetta Maiorano?

Io non so come e dove. Sai poi un romanzo non ha una genesi precisa. Come si costruisce il romanzo – per fortuna – non lo so e non lo voglio sapere, perché se avessi un controllo così preciso sulla prima fase non sarei più libera. Il controllo deve venire dopo, nella tornitura della frase e della lingua. Sicuramente tre persone diventano Elisabetta Maiorano nella mia immaginazione. Una è la mia amica Imma, che ringrazio dietro il libro, che era la vedova – colei che fa una battuta, a Natale, in una chat di amiche e dice “state zitte, non vi lamentate che a me mancano anche le mie cesse di cognate”. Quindi, una donna che ha vissuto tante disgrazie ma che trova anche la forza di risollevarsi.

Poi dentro ci è finita una maestra elementari di mio figlio, che mi fece un discorso molto bello: io vivo a Bagnoli, di fronte a Nisida, e questa maestra mi disse che “il nostro impegno qui, da questa parte di terra, è per non fare arrivare i ragazzi lì, da quella parte lì”. E poi nella durezza dei tratti del volto scavato dai detenuti, finisce anche Maria Franca, che ringrazio dietro il libro, che è stata quella che ci ha invitato a Nisida e si è inventata questo laboratorio di scrittura creativa e ha insegnato a Nisida per 30/40 anni.

Quali sono le condizioni sanitarie e sociali dei carceri e come è peggiorata la situazione con l’aggravarsi della situazione pandemica?

Io non sono un’esperta di carcere, ma io sono – da cittadina libera – molto angustiata per le vicende dei nostri detenuti perché sento che abbiamo una responsabilità nei confronti dei detenuti e credo – ma questa non è una frase mia – che “la civiltà di un paese si possa giudicare dalla condizione delle sue carceri” e siccome noi abbiamo un sistema carcerario molto affollato in cui entrano anche persone che in altri sistemi giuridici non entrerebbero – e siccome abbiamo delle carcerazioni preventive molto lunghe, io credo che noi non siamo un paese civile rispetto alle condizioni dei nostri carceri.

 

Beatrice Sciarrillo

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