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Una storia da leggere sui rischi del sexting, tratta dal libro #cuoriconnessi

A volte basta un semplice click per cambiare la vita di una persona. Ecco, la storia di Sofia, tratta dal libro #cuoriconnessi di Luca Pagliari

Oggi a Sanremo, Polizia di Stato e Unieuro hanno presentato il libro #Cuoriconnessi – storie di vite on-line e di cyberbullismo di Luca Pagliari, dove tante storie intense e figlie dei nostri tempi, seppur diverse per dinamiche, culture e territori, sono unite da un comune denominatore: il rapporto con la tecnologia e la rete.

#cuoriconnessi

Messaggi, immagini e video caricati in rete, si diffondono infatti in maniera incontrollata e restano presenti nel web per sempre, creando problematiche che, in alcuni casi, possono avere risvolti drammatici nella vita dei ragazzi. Il libro nasce dall’esperienza di #cuoriconnessi, campagna di sensibilizzazione ed informazione sul tema del cyberbullismo, realizzata da Polizia di Stato e Unieuro e dedicata agli studenti delle scuole secondarie. Dal 2016, anno di partenza del progetto, sono stati incontrati oltre 30.000 studenti in 42 tappe in tutta Italia: numeri importanti che colpiscono, ma non saranno mai in grado di raccontare i silenzi che hanno riempito i teatri o il coraggio di chi ha deciso di denunciare davanti a tutti un dolore fino ad allora mai condiviso.

La storia di Sofia

Sofia è la protagonista della seconda storia del libro e tutto ruota a una frazione di secondo, accompagnata da un pensiero “per una volta”. A volte basta un semplice click, posto o non posto, per cambiare la vita di una persona e Sofia era perfettamente conscia dei rischi che avrebbe corso, però in certi momenti si entra in terreni che si dovrebbe sempre e assolutamente evitare. 

So tutto quanto, riconosco che ho commesso una stupidata enorme, ma non chiedetemi come sia potuto accadere. Vi prego. Sono una superficiale? Sono un’imbecille? Sono una ragazza facile? Pensate pure ciò che vi resta più comodo. Giudicatemi e massacratemi ancora, tanto nessuno, tranne chi ci è finito in mezzo, può capire quello che ho provato e che tuttora continua a perseguitarmi. Il problema è che il passato non posso riscriverlo come una verifica d’italiano. Non c’è una brutta copia da correggere e quello che ho combinato resta per sempre. Vero, ora sto meglio. Del resto è trascorso oltre un anno, ma certe paure continuano a girarmi attorno. Avete presente l’ombra che ti segue mentre cammini sotto il sole? Per me è la stessa cosa.
La psicologa è bravissima e sa bene cosa dirmi, però quella maledetta ombra non riesco mai a sconfiggerla completamente e spesso torna a farmi visita. Questo mi provoca ancora molti problemi. Più di quanti ne possiate immaginare. Comunque una certezza ce l’ho. Anche se ho solo sedici anni, ho già vissuto almeno due vite. Ci sono un prima e un dopo. Cominciamo dalla prima vita e andiamo con ordine: mi chiamo Sofia come mia nonna materna ed ho una famiglia di quelle che vorrebbero avere tutti. Forse essendo figlia unica mi hanno viziata un po’ troppo ma penso sia inevitabile. Papà e mamma vivono per me, sono sempre stata al centro dei loro pensieri e non hanno mai saltato un saggio, una recita scolastica, una partita di volley o comunque una cosa che ritenessero fosse importante per la mia vita. Ogni volta che ho cercato lo sguardo dei miei l’ho sempre trovato e più che altro ho sempre colto il loro sorriso. Quello che ti fa sentire più sicura e ti aiuta a crescere avendo la consapevolezza di non essere mai sola. Sono fortunata, questa è la verità. Però a volte la fortuna bisogna saperla difendere e io invece non sono stata così brava e saggia.
2. Storia di Sofia
E dire che tutto è iniziato una sera a casa di Lalli, la mia migliore amica e compagna di banco fin dalle medie. Non era una vera e propria festa, c’era solo un po’ di pizza, qualche birra e tanta musica per contorno. Un sabato sera identico a quello di altri milioni di quindicenni. L’unica novità era costituita dalla presenza di due ragazzi di terza superiore, compagni di scuola del fratello di Lalli. Non ricordo perché, ma mi sono ritrovata a parlare con Sergio, uno dei due ragazzi, seduta sui primi scalini che dal salone portano al piano di sopra, quello dove ci sono le camere da letto. Io non posso dire che Sergio sia bellissimo, però è uno che dice cose diverse dagli altri, scrive testi rap e compone musica, infatti ha iniziato subito a raccontarmi come nascono i suoi pezzi e devo dire che lui è uno che quando parla ti cattura. Chissà da cosa dipende, però io sarei stata ad ascoltarlo per ore e quando lui mi ha detto: «raccontami tu un po’ di cose» mi sono sentita una sfigata perché non ho poi così tanti argomenti interessanti da proporre. Nulla di originale, tanto per intenderci. Quella sera ci siamo scambiati i numeri di telefono e quando sono arrivata a casa ho scoperto che mi aveva inviato un suo pezzo. Cavolo, una figata. Mi ha emozionato sentirlo cantare. Era un pezzo hip hop in cui descriveva una sua camminata in una notte di nebbia. Raccontava i personaggi incrociati; un tossico, le prostitute, le pattuglie della polizia e via dicendo. Quella canzone ha avuto il potere di trascinarmi dentro quella dimensione. L’avrò riascoltata dieci volte e poi mi sono addormentata con la sua voce nelle orecchie. Io non so perché ci si innamori, ma Sergio era diventato un pensiero costante, rappresentava un qualcosa di assolutamente diverso rispetto a tutti gli altri ragazzi. Già dal pomeriggio successivo, ad ogni notifica di un messaggio avevo il cuore che schizzava a mille. Invece niente. Missing. La cosa strana è che faticavo a ricordarne il viso, allora aprivo il suo profilo Instagram e per la centesima volta mi trovavo a rivedere le stesse foto e a rileggere le stesse frasi. A parte Lalli e suo fratello, avevamo pochi amici in comune. C’erano molte ragazze tra i suoi followers e confesso che questo mi provocava una specie di gelosia, quasi rabbia, perché mi rendevo conto che tutto sommato con Sergio avevo condiviso solo una misera chiacchierata seduta su degli scalini. Dopo un paio di giorni iniziai a perdere ogni speranza, mi autoconvinsi di essermi fatta un film, in fin dei conti quella sera era stato quasi sempre lui a parlare, io nella mia mediocrità avevo solo ascoltato. Ero una delle tante ragazze a cui aveva raccontato belle storie e nulla di
più. Evidentemente non lo avevo affatto colpito, ma in fondo c’era da immaginarselo. «Sofia, oggi pomeriggio vado a suonare a casa di Giammi e Filo, ti va di venire?» Quando lessi quel messaggio mi sembrò quasi di impazzire di gioia. Allora è vero che nella vita possono accadere cose meravigliose! Stavo entrando in classe quando lo visualizzai sul display. Poche parole ma chiare, Sergio si era ricordato di me. Incredibile ma vero. Inutile aggiungere che di quella mattina ricordo quasi niente, ero completamente persa dentro un mondo di fantasia e di pensieri. Negli occhi e nelle orecchie restano le ore trascorse a casa di Giammi ascoltando la loro musica, le pause per qualche sigaretta e poi il nostro primo bacio, appoggiati allo sportello di una macchina parcheggiata nella via parallela a quella di casa mia. Sergio da quell’istante è diventato il centro del mio universo. A scuola Lalli e le altre ridevano e dicevano che ero diventata come «Alice nel paese delle meraviglie». Nel mese successivo con Sergio ci siamo visti un paio di volte a settimana, sempre di pomeriggio e ogni volta è stato bellissimo. Passeggiate per le vie del centro oppure seduti sulle panchine dei giardini a scambiarci una infinità di baci. Quando si è con persone speciali tutto diventa speciale, ero veramente scivolata dentro a una favola. Viviamo in angoli diversi della città, quindi incontrarci era piuttosto complicato, io tra l’altro sono impegnata con la pallavolo tre volte a settimana e comunque andava bene così. Era la sera che ci prendevamo più tempo al telefono. Messaggi su messaggi, pensieri belli, confidenze, parole che continuavano a emozionarmi sempre più. In quelle settimane non vedevo l’ora di terminare la cena per correre in camera e rifugiarmi nel nostro mondo. Effettivamente quel fiume di messaggi che ci scambiavamo, ognuno sdraiato sul proprio letto, costituiva la parte più bella della giornata. Nessun dubbio! Poi è arrivata quella sera. Un mercoledì, per essere precisi. La chat ad un certo punto ha iniziato a trascinarci in luoghi inesplorati, abbiamo semplicemente seguito il flusso delle parole e alla fine ci siamo ritrovati dentro un giardino segreto. Le parole emozionano, coinvolgono e a volte finiscono con il condurti dove vogliono loro. Beh, inutile girarci troppo attorno, perché è di sesso che abbiamo iniziato a parlare. Messaggio dopo messaggio la nostra chiacchierata si è trasformata in altro. Avevo il cuore che batteva
a mille e per fortuna Sergio non poteva vedere il colore delle mie guance diventate più rosse di un pomodoro. Ci siamo confidati esperienze e sensazioni, intanto il tempo volava. Certe cose le sapevano solo un paio di amiche mie, ma in quella serata speciale tutto era diventato possibile. Non so come descrivere quei momenti, le sole parole che mi vengono alla mente sono complicità e trasgressione, perché se ti lasci prendere dal gioco, vai avanti e senza accorgertene ti spingi sempre un po’ più in là. Strano ricordo. Io bambina sdraiata sul materassino in acqua mentre la corrente mi trascina verso il largo. Riascolto le urla di mamma dalla riva e poi il bagnino che mi viene a recuperare con un pattìno. Ecco, quella sera in camera mia senza accorgermene ho preso ugualmente il largo, solo che non c’è stato il richiamo di mamma e nessun bagnino è venuto a soccorrermi. «Dai, mi mandi una tua foto? Voglio vederti tutta!» Non ero preparata a questo ulteriore passaggio, proprio no. Di getto gli ho risposto se fosse impazzito, intanto il cuore batteva forte, sempre più forte. Poi ho aggiunto «Ma che genere di foto?» anche se in realtà sapevo bene cosa intendesse, solo che avevo bisogno di prendere tempo. «Decidi tu! Io vorrei vedere tutto, ogni centimetro del tuo corpo…». Pulsazioni a centomila, emozione misto a paura, voglia di fare e non fare. Terra di nessuno e il materassino va. Poi un altro ricordo nitido. Poi un altro ricordo nitido. Zia Claudia che tre anni fa mi regala lo smartphone e mi dice: «Occhio alle stupidate Sofi! Tutto quello che finisce in rete, foto comprese, non è roba tua». Poche parole ma di quelle che lasciano il segno, perché zia Claudia ha una mente giovane, insegna danza moderna ed è sempre in mezzo ai ragazzi. «Allora? Eddaiii! Se cominci tu, poi ti mando le foto mie. Ti piace l’idea?» Le parole di zia si spengono, perdono energia, lasciano il posto alla voglia di fare quello che non andrebbe fatto. Tanto per una volta non succede niente. «Per una volta». Ancora non avevo la minima idea di cosa si potesse nascondere dietro quella piccola e apparentemente insignificante frase. La decisione era stata presa. Prima di rispondere ho aspettato ancora un attimo e poi avanti tutta. «Ok. Le vado a scattare in bagno perché in camera mia non posso chiudere la porta a chiave». Scrivevo ed era come se non fossi più in grado di tornare indietro. E comunque la cosa mi piaceva perché era con Sergio che avrei condiviso questa esperienza unica. «Wow!!! Troppo bella questa storia!!! Cavolo Sofi, ti adoro!
I wait!!!» «Per una volta, per una volta, per una volta», questo pensiero continuava a darmi coraggio e allora sono entrata nel gabinetto con lo smartphone e in dieci minuti ho fatto tutto quello che volevo e dovevo fare. Ho scattato foto intime. Molto intime. Le ho selezionate con cura, giusto un paio di ritocchi e poi sono tornata in camera. Un ultimo sussulto di resistenza e poi quel clic sul tasto invio. Per una volta… Nei giorni successivi Sergio è stato ancora più affettuoso del solito, adesso sarebbe toccato a lui inviarmi le sue foto e il fatto mi rendeva curiosa e impaziente. Tutto sommato stavamo affrontando delle prove di fiducia e queste cose, da quando esiste il mondo, uniscono ancora di più. Adesso però è arrivato il momento di voltare pagina. Benvenuti nel secondo capitolo della mia vita. Era un qualsiasi pomeriggio e stavo uscendo dalla palestra al termine dei soliti allenamenti di volley. Sono alzatrice, dicono che abbia due piume al posto delle mani ed è per questo che sono sempre stata titolare. Ero serena, molto serena. Ricordo di aver acceso lo smartphone e di essermi trovata sepolta sotto una valanga di notifiche. La prima era di Erika: «Cavolo hai combinato Sofi?!?! Un tipo ha pubblicato su Instagram tre foto tue! Sofi, sono foto porno! Ma quando le hai fatte? Chiamami!» Era solo il primo tra gli oltre quaranta messaggi che mi erano arrivati in meno di un quarto d’ora. Lalli, mi aveva anche girato le foto incriminate e non esistevano dubbi. Ero io. È incredibile come le nostre esistenze possano mutare nell’arco di pochi istanti. Mi sono dovuta appoggiare al muro esterno della palestra per non cadere a terra. Un solo e disperato desiderio: scomparire, scappare, mettere subito fine a un incontrollabile senso di angoscia. Piangevo, tremavo e intanto continuavano ad arrivarmi messaggi di amici, amiche e semplici conoscenti. Erano tutti increduli, qualcuno, non ricordo chi, mi scrisse: «Domani come fai a venire a scuola?». In quel momento ho pensato seriamente che forse mi sarei dovuta uccidere o perlomeno che sarei dovuta scappare salendo sul primo treno. Nascondermi da qualche parte, ma dove? Ecco, per la prima volta provai l’esatta sensazione di cosa significhi essere disperata. Le mani continuavano a tremarmi in maniera incontrollata e comunque, non so come, sono riuscita a telefonare a Sergio. Mi ha risposto subito, sapeva già tutto. Io urlavo, urlavo e piangevo.
«Sei una merda! Mi fai schifo! E io che mi sono fidata di te! Sarai felice adesso che hai distrutto la mia vita, sai che ti dico? Io mi ammazzo e la colpa è tua! Ricordatelo per sempre!» Gli urlavo di tutto fregandomene della gente che passava e osservava quella scena, scambiandola magari per una semplice litigata tra due adolescenti. Piangeva Sergio, era terrorizzato dalle mie parole e tra un singhiozzo e l’altro riusciva solo a pronunciare la parola “scusa”. Solo allora, aggrappandomi a un filo di lucidità, sono riuscita a farmi spiegare cosa fosse accaduto. Sergio aveva condiviso le foto in una chat composta da alcuni suoi amici di scuola e uno tra loro le aveva postate. «Scusami Sofia! Perdonami! Non pensavo che quel pezzo di merda le postasse! Scusami, tutta colpa mia!» Ricordo di avergli attaccato il telefono in faccia e di essere andata immediatamente a visionare il profilo del suo amico che neppure conoscevo. C’erano già decine di commenti e di condivisioni. Troppo tardi. Impotenza e frustrazione. Da una parte io e dall’altra la rete, incontrollabile, implacabile, più potente di un virus mortale che non teme antidoti. Quella sera tornai a casa in stato confusionale e con la scusa del mal di testa mi ritrovai in camera senza aver cenato. Sdraiata sul letto, con lo smartphone vagavo in mezzo ai social come una disperata. Alle nove di sera l’amico di Sergio aveva già rimosso le foto, probabilmente si era reso conto della stupidata che aveva commesso, ma come per una maledizione le immagini spuntavano fuori da altre parti. La cosa più devastante è stata avventurarmi nella lettura dei commenti. Ogni parola una lama di coltello che mi penetrava l’anima, ogni giudizio una nuova ferita, poi c’erano gli increduli «Ma è Sofia della seconda F?» e decine di sconosciuti pronti a sparare giudizi devastanti «Ammazza che troia!», «Bella e arrapante», «Puttanelle liceali al lavoro!» e via dicendo. Inutile aggiungere che quella notte non riuscii a chiudere occhio. La mattina mi sono fatta una doccia e poi dopo mezza tazza di latte e un paio di biscotti mi sono avviata verso il patibolo. I miei erano già usciti, per fortuna niente bugie pietose da inventare. Quando ho varcato il portone della scuola mi sono venute subito incontro Lalli e Michi e dalle loro espressioni ho subito capito che la notizia era già di dominio pubblico. «Dai, entriamo subito in classe e non cagare nessuno. Quelle foto sono la notizia del giorno», mi ha detto Lalli mentre stavamo attraversando il primo corridoio. Impossibile non sentirsi addosso gli sguardi di tutti. Mi ero lasciata i Ray-Ban scuri cercando di mettere almeno un filtro tra i
miei occhi e i loro, ma questo serviva a molto poco. Tutti sapevano. È pazzesca la velocità con cui certe notizie si diffondono. Ancora la parola vergogna non l’avevo scritta, ma è la più devastante in assoluto. Vergogna per quella intimità violata e sbattuta in faccia a tutto il mondo, vergogna nei confronti dei compagni di scuola, dei professori, della squadra di volley e poi l’incubo di dover fare i conti con la mia famiglia, tanto lo sarebbero venuti certamente a sapere. C’era anche tanta rabbia verso me stessa e quella rabbia, a dire la verità, continua a tormentarmi anche ora. Ricostruisci mille volte quella scena maledetta e comprendi quanto sei stata stupida. E dire che sapevi, che ne avevi parlato a scuola e in famiglia, che conoscevi benissimo le trappole della rete, eppure ci sei caduta come una gallina. «Per una volta cosa vuoi che sia? Mi fido di lui perché è una persona speciale» e questo era il risultato di tanta stupidità messa assieme. Torniamo a quel giorno di scuola. Il primo della mia seconda vita. C’era voluto poco a intuire che la storia delle foto non sarebbe stata dimenticata dalla gente in un paio di giorni. Durante la ricreazione rimasi inchiodata al banco, paralizzata dalla paura. Non ero assolutamente in grado di sostenere il peso di centinaia di sguardi morbosi. Mi sentivo fragile, vulnerabile e nuda, esattamente come in quelle foto che il web stava spargendo nell’aria come foglie in una giornata d’autunno. Nei giorni successivi ho imparato sulla mia pelle quanto la gente possa essere cattiva e crudele. In teoria sarei dovuta rimanere distante dai social, evitando così di farmi ancora più male, ma in pratica appena avevo un attimo di tempo mi tuffavo on-line per seguire passo dopo passo il percorso di quelle foto e delle parole che le accompagnavano. Gente mai vista e conosciuta sparava frasi terribili, battute feroci, oppure emetteva sentenze di ogni genere. Nessuna pietà, neanche per sbaglio. «Una puttanella da due soldi che se l’è andata a cercare!» Questo era il pensiero più comune. Come se fossi stata io a pubblicare quelle foto. Io ho sbagliato, sia chiaro, ma non “me la sono andata a cercare” come scrivevano in tanti. Sono stata ingenua, ho riposto male la mia fiducia, ho compiuto un gesto che sulla rete non ammette giustificazioni, ma non “me la sono andata a cercare”. Che ne sa la gente di quella serata? Del clima che si era creato e di quanto sia facile caderci. Certo, anche io sapevo benissimo che in rete non bisogna condividere nulla, ma quella è teoria mentre la realtà è altro.
In compenso, avevo cominciato a disertare gli allenamenti di pallavolo e faticavo a mangiare anche una sola fetta di pane. Quasi ogni notte mi svegliavo di soprassalto, madida di sudore e con un peso enorme in mezzo al petto. Intanto la vergogna aveva in parte ceduto il posto al senso di sporco. Esatto. Mi sentivo sporca dentro e nulla era in grado di attenuare quella sensazione nauseante. L’inferno è trovare nel bauletto dello scooter una copia di quelle foto con scritte le cose peggiori. L’inferno è sapere che esistono delle chat dove hanno scelto una mia foto nuda come avatar. L’inferno è nello sguardo di alcuni genitori dei miei compagni di scuola. Ogni giorno mi ha riservato per mesi un pezzettino di inferno. Ogni giorno. A scuola, specialmente quelli più grandi, si divertivano a insultarmi attraverso le chat, poi cominciarono a comparire le scritte a penna nei gabinetti ed infine una mattina, sul muretto di cinta del liceo, con la vernice rossa si materializzò la scritta «Sofia troia nostra». All’istante compresi che avrei dovuto affrontare un altro dolorosissimo passaggio della storia, infatti il giorno successivo venni convocata in presidenza. Già sapevo. Già immaginavo. Quando entrai nell’ufficio la Dirigente non c’era. Con gli occhi cercai un qualcosa che potesse farmi coraggio e che mi fosse amico, ma non trovai nulla in grado di allentare la mia tensione. Poi lei è entrata mettendosi immediatamente seduta dietro alla scrivania. Non si è persa in troppi giri di parole. «Sofia, mi risulta che quella scritta demenziale comparsa ieri all’esterno della scuola sia rivolta a te. Mi riferiscono che tutto sarebbe cominciato per delle foto pornografiche finite on-line. Cosa puoi dirmi di questa storia?». Iniziai a piangere. Un fiume di lacrime e di parole. Era la prima volta dall’inizio di quell’incubo che potevo permettermi il lusso di farlo con un adulto. E comunque dopo quello sfogo provai un enorme senso di sollievo. C’era un qualcosa di liberatorio nella mia confessione arrivata a oltre due mesi da quella maledetta giornata. «Chi ha postato quelle foto ha commesso un reato, Sofia. Diffusione di materiale pedopornografico. Ne sei al corrente?». Onestamente non avevo mai preso in ipotesi questo aspetto della vicenda e, tutto sommato, la Preside si dimostrò di gran lunga migliore dei mostri che mi massacravano in rete. Mi colpì il fatto che evitò di esprimere ogni forma di giudizio. Nessuna ramanzina, nessuna frase fatta, niente di niente. «Naturalmente, Sofia, di questa vicenda dovremo parlare con i tuoi genitori». Annuii in silenzio,
anche questo passaggio era previsto. La sera stessa, non so come, mentre mamma stava sparecchiando la tavola, trovai la forza di raccontare quanto accaduto. Riuscii a non piangere. Ascoltarono in silenzio e anche loro, come la Preside, evitarono commenti ed evitarono di puntarmi il dito contro. Certo che dolore e preoccupazione glieli potevo leggere in faccia. Li avevo delusi e traditi, non si meritavano una figlia come me. La mattina successiva sono andata a scuola accompagnata da papà. La Preside ci ha ricevuto subito, hanno parlato di possibili denunce e di come potermi tutelare, perché era evidente che in quella scuola risultavo marchiata a vita. Da quella mattina sono passati esattamente dieci mesi, assieme ai miei abbiamo preso una decisione importante, infatti ho iniziato il nuovo anno scolastico in un altro liceo cercando di costruirmi una nuova identità. Lalli però continua ad essere la mia migliore amica, mentre di quello lì (Sergio) non ho avuto più notizie e neppure voglio averle. Spero solo che sia conscio del dolore e dei danni che mi ha causato. Purtroppo ho chiuso con la pallavolo. Lo so che è un errore, ma non avevo più la giusta concentrazione, dentro me si è rotto qualcosa, forse la fiducia negli altri. Per questo sono diventata diffidente e passo molto tempo in casa. Ad esempio, se un ragazzo mi guarda per oltre tre secondi devo immediatamente controllare l’ansia, perché immagino subito che mi abbia riconosciuta. La psicologa mi ha insegnato a gestire questi attacchi di panico ma non è semplice. Lo so che per molti io resterò sempre quella delle foto. La rete non perdona, amici miei. È peggio del fuoco, ti brucia, ti riduce in cenere se commetti errori tipo il mio. I disturbi alimentari sono quasi scomparsi, ma la cosa peggiore sono gli incubi, perché ancora mi capita di averli. Sogno di essere nuda in mezzo alla gente, vorrei coprirmi e nascondermi perché mi vergogno da morire ma non esiste un riparo. Quando mi risveglio dall’incubo un po’ mi tranquillizzo, ma puntualmente ripenso a quelle foto e mi domando quanti le avranno scaricate e dove le conserveranno. Potrebbero ancora farmi del male, pubblicarle nuovamente, dare inizio a un altro massacro. Io posso solo tentare di non pensarci e concentrarmi sulle cose belle della vita. Solo questo posso fare. Nulla di più.
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