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Una chiacchierata con Salvo Scibilia sulla creatività, ”dimensione trasversale che scorre fregandosene delle distinzioni”

Salvo Scibilia fa (è) molte cose. Ne cito alcune: insegna Sociologia della comunicazione all’Università di Catania; si è sempre occupato di pubblicità; ha scritto il romanzo “Le male parole” (Kowalski, 2008)...

Salvo Scibilia fa (è) molte cose. Ne cito alcune: insegna Sociologia della comunicazione all’Università di Catania; si è sempre occupato di pubblicità; ha scritto il romanzo “Le male parole” (Kowalski, 2008). Il resto ce lo dirà lui, se vuole e nei limiti in cui lo desidera.

 

Ciao, Salvo. Comincerei questa chiacchierata parlando del tuo lavoro di pubblicitario. Credo che alcuni spot molto noti siano stati creati da te, ce ne ricordi qualcuno? E che significato ha per te creare una pubblicità che entra nella mente del consumatore e lo orienta verso l’acquisto di determinate merci?

Nell’Ottantadue scesi da un’impalcatura ideologica rigidissima ma intimamente fragilissima, perché la vita mi impose di mettere i piedi per terra. Avevo appena sposato una ragazza di Ortigia che profumava di reseda. Guadagnavo due lire facendo il precario all’università di Catania, mi ero inventato una doppia vita: facevo il pubblicitario di provincia e proprio quell’anno emigrai a Milano. Era il momento magico della pubblicità. Da allora non ho mai smesso. Di mio, on air, in questo periodo c’è tutta la serie dell’uomo (socio) – Conad che si sveglia nel cuore della notte e va a controllare che tutto sia in ordine. Ho posto rimedio alle grandi ansie che si erano generate (specialmente in rete) sulla capacità di performare sessualmente del nostro protagonista, inventando un nuovo soggetto tv nel quale lei, la moglie (commentando una nuova iniziativa promozionale del marito) dice: ‘…le donne saranno felici. Una sicuramente’, ammicca, spegne l’abat-jour e al buio inizia un mugolio allegrotto che fa ben sperare.

Prima ho vissuto una lunga serie di spot per Barilla, una ventina. Mi piace quello (una dozzina di anni fa, ormai) in cui lui e lei, tra Roma e Londra, chattano scambiandosi la ricetta delle farfalle Barilla e, nel ping-pong amoroso, lei gli rivela di essere in attesa. La pubblicità mi piace perché mette in scena un gioco nel quale le finalità sono esplicite: c’è qualcuno che vuole vendere qualcosa a qualcun altro e si inventa un modo per farlo. La pubblicità è una grande palestra a vetri: tutte le figure retoriche, tutti i media e tutti gli stili trovano spazio e si sperimentano in continuazione. Il fatto che l’Italia sia rimasta indietro rispetto al resto del mondo, dipende da tante cose. Non bastano poche righe a spiegarlo.

Quando torno a Catania, mi piace rivedere ancora, era per un’agenzia immobiliare, il mio primo ‘slogan’ (lo chiamo così perché alla fine questo vecchio neologismo è più romantico del più corretto ‘head-line’): ‘Giorgi. Se si tratta di case’. Credo che fosse il Settantotto.

 

Come sei arrivato all’idea di scrivere “Le maleparole”? Lancio alcune ipotesi: lo desideravi da sempre, come spesso accade a chi vive di parole scritte e a un certo momento vuole scrivere “altro”? Ti è nata dentro all’improvviso la voglia di raccontare una storia, con un’urgenza alla quale non potevi e nemmeno volevi resistere? Tu, da decenni trapiantato a Milano, sentivi il bisogno di raccontare la tua Sicilia per nostalgia, per dare una forma alla memoria della terra da cui provieni, con le sue contraddizioni?

Ho cominciato vincendo il pudore di farlo nonostante la grande inibizione che mi procuravano   le letture importanti che avevo fatto. Dopo venticinque anni di scrittura mercenaria, un giorno di fine giugno ero al Gray d’Albion, a Cannes, per il Festival internazionale del film pubblicitario (si tiene subito dopo il più noto Festival del cinema). Ero seduto sul terrazzino della mia stanza e guardavo con un occhio una fettina di mare oltre la Croisette e con l’altro il frigobar. ‘Se fossi un grande prenderei un bottiglia di champagne, le taglierei il collo e comincerei a scrivere’, mi dissi. Quando smisi di scrivere le prime diciotto pagine senza mai staccare la penna era buio e c’era un pezzo di luna, la guardai e mi venne fame. Il pezzo che avevo scritto cominciava con ‘Pioveva fitto fitto…’. Avevo proprio voglia di smantellare la cartolina del bel tempo siciliano che diventa la nostra arma da contrapporre a tutto: ‘sì, ma da noi…’. Da noi un cazzo, avevo detto tra me e me. Quella volta feci come i grandi scrittori, ed è stato bello anche se non sono diventato uno scrittore né grande, né piccolo. Il paradosso è che ho trovato, solo alcune volte ma non sempre, più libertà e più poesia nella scrittura mercenaria che non nella cosiddetta scrittura libera o artistica. Credo che la libertà abbia un prezzo e che occorra sempre poter staccare una fattura per esigerlo.

 

Ancora sul tuo rapporto con la Sicilia. Come la vedi, tu che vivi lontano (anche se per l’insegnamento universitario ci vai spesso)? Come e quanto trovi cambiata Catania, rispetto agli anni in cui te ne andasti, come tanti, a lavorare al Nord?

Catania è diventata più nervosa e depressa. Quell’esplosività creativa, così diffusa e caratteristica un tempo, si sta spegnendo. Chi può raschia il fondo del barile per i figli. Quella frase così diffusa un tempo, noi potremmo vivere di turismo  (cioè in modo parassitario, naturalmente)  nessuno la dice più, neanche per scherzo. Gli arancini hanno perso il croccante, i cannoli sono mosci e le donne dall’esporre il gomito dal finestrino e la sigaretta pending dalle labbra scarlatte sono passate al gesto del connoisseur: adesso fanno roteare grossi calici panciuti dentro i quali si agitano vini destinati a rimanere indecifrabili.

 

Condivido questa immagine desolata della città, una sorta di pubblicità negativa; ci leggo dentro una rabbia venata di malinconia, o forse il contrario, una malinconia venata di rabbia. Cosa ti manca della Sicilia, ammesso che ti manchi qualcosa?

Mi manca la voglia di continuare a interpretarla. È come quando le storie d’amore  non pongono più domande.

 

Nel 2011 hai scritto un libro del tutto diverso dal romanzo “Le maleparole”, un testo non di narrativa: “Human Brand” (editore Lupetti), che ha un sottotitolo affascinante e significativo, “Le strategie di marca e i sentieri che hanno un cuore”; non l’ho ancora letto, ma lo farò. Intanto vorrei sentire da te qualcosa sui sentieri del sottotitolo. E ancora: immagino − ma potei sbagliarmi − che questa esperienza sia stata del tutto diversa dalla stesura del romanzo. Ma è possibile definirla ugualmente un’esperienza creativa o dobbiamo collocarla nel territorio della ricerca? E non c’è comunque creatività anche nella ricerca?

Certo che c’è creatività nella ricerca. In quel libro che ho scritto su un piano più accademico che letterario c’è esposta, e credo motivata, la tesi che la cultura della comunicazione, da noi, in Italia è quasi del tutto assente e questa ignoranza diffusa genera disastri. Ma il discorso ci porta lontano. Il sottotitolo ‘i sentieri che hanno un cuore’ è preso da Carlos Castaneda, che a sua volta cita il suo maestro Don Juan, uno sciamano messicano, che suggeriva di seguire proprio quel tipo di sentieri. Ma prima bisogna individuarli. Altrimenti facciamo come milioni di persone: ci mettiamo in fila e ci spostiamo solo da casello a casello…

L’umano, il personale, come dimensione, mi perseguita. A Conad  ho dato come mission ‘Persone oltre le cose’. Sta sotto il marchio, sempre, come un chiodo fisso.

 

Sei a tuo agio − credo che possiamo dirlo − con diversi tipi di linguaggio: letterario, scientifico, pubblicitario. Che differenze ci sono fra queste diverse modalità di comunicazione?

Sì, sono a mio agio, non so se quelle scritture sono a loro agio con me. Bisognerebbe sempre poter chiedere ai cani cosa pensano dei loro padroni.

Le distinzioni di genere sono sempre distinzioni di comodo, cioè convenzionali. La (da nominare sempre a bassa voce e con il naso tappato) creatività è una dimensione trasversale che, quando riesce a trovare uno sfogo, prende a scorrere fregandosene delle distinzioni. ‘Resist the usual’  è un precetto prezioso di Raymond Rubicam (fondatore della Young & Rubicam). Lo tradurrei con ‘attenzione al luogo comune’ nel quale si rischia sempre di cadere; operativamente dunque anche in ambiti extra pubblicitari è sempre bene ‘sbanalizzare il reale’, il quotidiano. L’ancoraggio con la realtà non va smarrito altrimenti si finisce in un ‘famolo strano’ senza fondamento.

Certo, la scrittura scientifica ha bisogno di competenza, ipotesi di correlazione tra variabili e chiarezza sempre riconducibile ad un codice condiviso.

La scrittura letteraria credo che debba scorrere senza l’ausilio di tante stampelle. Quando scrivo cerco di sgomberare il campo, di respirare, e poi mi innamoro di una strada senza sapere dove mi porta.

 

Scrivi o scriverai ancora narrativa? O pensi di non avventurarti più nel territorio dell’invenzione di una storia?

Se ci sono storie che vorranno essere inventate da me, troveranno il modo di farmelo sapere

Grazie, Salvo, per il tuo tempo e le tue risposte generose.

Rosalia Messina


27 aprile 2014

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