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Simonetta Sciandivasci, “Donne, si può amare il calcio anche senza capirlo”

Intervista alla giornalista e scrittrice Simonetta Sciandivasci, autrice del libro "La domenica lasciami sola"

MILANO – Hic sunt leones: Qui ci sono i leoni, non avvicinatevi, lasciate perdere, accontentatevi dello spazio che avete. La locuzione latina usata nel medioevo per segnalare fin dove arrivavano le terre conosciute, oltre le quali non si poteva andare, funzionava. Fino a quanto, la storia ci insegna, non arriva qualcuno che quei divieti non li considera, “non li rispetta” direbbe chi ha fatto della frontiera un dogma nel vedere qualcun altro superarli e, semplicemente, andare oltre e da quel giorno: prego, ecco la strada, per chi vuole. E cosa c’è di più difficile da superare se non le barriere mentali?

Hic sunt pallones: Qui c’è il pallone, che sia in tv o al campo da calcetto o allo stadio. Poi però è arrivata la giornalista e scrittrice Simonetta Sciandivasci che con il suo libro La domenica lasciami sola (LDLS per chi è smart), edito da Baldini&Castoldi, ha percorso con spirito pioneristico, fatto di ottimismo e passi falsi, momenti di scoramento e altri di slancio, l’inospitale mondo degli appassionati di calcio. Si tratta di un’esplorazione mai tentata prima quindi tranquilli cari lettori, non c’è il rischio d’impantanarvi in luoghi comuni. Il libro non a caso è riuscito a conquistare la Coppa del Lettori, il premio indetto dal sito e progetto di lettura creativa Finzionimagazine.it.

Sciandivasci adopera la lingua del calcio che, come tutti gli altri muscoli, per ottenere buoni risultati deve essere tenuto in costante allenamento: infatti potrete leggerla anche all’interno del quotidiano IL FOGLIO per il quale, tra le altre cose, si occupa di Gioco maschio (Sarri seems to be the hardest word, cit. il web), una rubrica sui principali fatti e protagonisti del nostro sport nazionale godibile nella stessa misura in cui possiamo veder giocare i numeri 10: ammirando ogni volta giocate che noi non avremmo mai nemmeno osato immaginare di fare. Ecco la nostra conversazione con l’autrice.

 

Partiamo dall’inizio della fine. Il primo capitolo si intitola Forse la scema sono io. Al termine del lavoro interiore e di scrittura di questo libro hai raggiunto una posizione definitiva in merito al punto di partenza?

Confermo: in fatto di calcio, sono una scema. Non lo capisco, non intendo provare a farlo: la tesi del libro è che si può amare il calcio anche senza capirlo. Dopotutto, il modo migliore per amare è evitare di ragionarci sopra.

 

La voce narrante sei tu, usi il tuo nome e non un alter ego. Racconti di persone che realmente esistono nella tua vita. Dopo la pubblicazione del libro hai notato se qualcuno intorno a te ha iniziato a comportarsi in maniera innaturale, artificiosa, comportandosi nel modo in cui avrebbe voluto essere descritta, magari, nel tuo prossimo libro?

Ci sei cascato: attenzione, il nome della protagonista non è Simonetta, ma S. Potrebbe essere anche Sofia, Semiramide, Sara. La storia del libro non è autobiografica, ma soffro sempre un po’ quando lo specifico: in verità, credo che non esistano libri non autobiografici. Un autore è il suo libro, anche se racconta una storia che non ha vissuto: l’immaginazione è la facoltà di scrivere la nostra storia, diversificandola dal corso che le congiunture le hanno dato nella realtà. Allora, quel S. puntato mi serviva tanto a dire questo, quanto ad abbracciare le lettrici, fare sì che vedessero nella protagonista innanzitutto una voce che pensasse insieme a loro. Anche per questo, S. non viene mai descritta. “La domenica lasciami sola” non è propriamente un romanzo: piuttosto, è un ibrido da pamphlet e romanzo, ecco perché la sua protagonista è innanzitutto un ragionamento.

 

Se in un luogo pubblico e ti capita di ascoltare una conversazione di estranei che parlano del tuo libro. Qualcuno lo promuove, qualcuno lo critica, qualcun altro ancora lo ha letto ma dimostra di non averci capito niente. Che fai? Intervieni o ascolti in silenzio?

Credo che mi godrei lo spettacolo. Il mio ruolo era scrivere il libro: leggerlo, attaccarlo, discuterlo compete ai lettori, che hanno prima di tutto il diritto di fraintenderlo (o, magari, capirlo persino meglio di me che l’ho scritto): infrangerei quel diritto, se provassi a imporre la mia chiave di interpretazione (in fondo, si tratterebbe solo di una forma di giustificazione). La scrittura è un meraviglioso atto di invadenza, ma il rapporto tra scrittore e lettore dev’essere governato da profonda discrezione, se si vuole salvaguardare la libera espressione di entrambi.

 

Ti poni questo interrogativo E se la reale intenzione di Dio, appiccicandoci le tette addosso, non fosse stata quella di impedirci di correre più veloce, ma di poterci esimere dal farlo? seguito da un esilarante resoconto di un tuo dialogo con Dio in cui lui ti spiega come la pensa. Il dubbio che resta è come la pensi tu: secondo te il calcio femminile avrà mai una sua dignità? [Ti va di accennare al caso del presidente della Federcalcio Tavecchio che ha parlato della sua idea di inferiorità femminile eccetera?]

“Siete belle e bravi”: quando lessi questo tweet (non ricordo di chi fosse), la scorsa estate, mentre seguivo la finale del mondiale di calcio femminile, caddi dalla sedia, per quanto mi fece ridere. Il calcio resterà, nell’immaginario collettivo, uno sport maschile (e io spero che potremo continuare a sentire gli sfottò dei maschi, che sono solo sfottò e non uno dei milioni di portati che attribuiamo al maschilismo) perché è nato come sport maschile. Tuttavia, quanto è interessante interrogarci sul futuro e ipotizzare possibili “sdoganamenti”? Le donne giocano, tifano e continueranno a farlo, in numero crescente o decrescente, chi può dirlo. La sola cosa fastidiosa è che a volte alcune donne che seguono o praticano il calcio, lo fanno con uno strambo spirito di rivalsa, come a dimostrare “vedi, maschio, so farlo anche io: so fare tutto quello che sai fare tu, forse perfino meglio”. Esiste qualcosa di più tedioso?

 

Perchè non stai presentando né facendo l’autrice di Quelli che il calcio?

Perché la tv ingrassa, ovviamente.

 

Nel corso della narrazione citi tre volte Woody Allen. Quanta verità c’è in “l’importante è che mi faccia ridere”?

Alla verità credo poco, perché credo pochissimo agli assoluti. “Basta che funzioni”, restando a Woody Allen, mi sembra una buona regola. Qualche settimana fa ho visto un film strepitoso: “Mon Roi”. Il protagonista è proprio uno di quegli uomini pazzescamente divertenti, irresistibili, uno di quelli che fanno ritenere plausibile e allettante una vita insieme perfino su un pianeta disabitato. Eppure, la sua compagna non riesce a reggere all’esondazione di vitalità di lui: non funziona. Quando funziona succede questo: ridi perché stai bene, perché sei a tuo agio, non perché hai accanto Jacques Tati. Dev’essere l’amore a farci ridere, non chi amiamo.

 

Una parte molto piacevole de LDLS è rappresentata dai dialoghi diretti che hai con la tua migliore amica, con il tuo uomo e con i tuoi amici. Il ritmo e la brillantezza ricordano i migliori dialoghi di sit-com come Friends o di film del tipo “Harry ti presento Sally”. Hai mai immaginato uno sviluppo filmico del tuo libro d’esordio? Quale attrice ti piacerebbe interpretasse la parte di Simonetta?

Certo che l’ho immaginato e l’ho anche sognato (lo faccio ancora). Nella parte di S – visto che sogno, mi permetto di farlo alla grande – vedrei Winona Ryder, con il caschetto e l’età che aveva in “Sirene”. O Valeria Bilello: quando la vidi in “Happy Family” di Salvatores, me ne innamorai: costumata, delicata, bellissima.

 

Decidere d’intraprendere la lettura di un libro significa decidere di sottrarre del tempo al lavoro, al secondo lavoro, alla ricerca del lavoro per i disoccupati, alla famiglia, gli amici, allo sport e ai social, in una sola espressione: al logorio della vita moderna. Leggere però richiede un certo grado di concentrazione e a volte succede che le prime pagine di un libro scelto d’impeto, per consiglio o perché è il libro del momento, non ci appagano. Cosa fare? Bocciare il libro senz’appello o perseverare alla ricerca di un tesoro che alla fine ripagherà lo sforzo iniziale?

La lista dei libri che non ho mai finito di leggere è vasta, almeno quanto quella delle ragioni per cui ho scelto di chiuderli prima di arrivare all’ultima pagina: sono tante e non tutte portano il segno di una insofferenza o di una delusione. Mi piace intrattenere un rapporto sereno con la lettura, umanissimo e per nulla sacrale: i libri non sono liturgia e, se non soddisfano un piacere, vanno abbandonati. Nessuna fatina ne morirebbe e la vita è lunga abbastanza per potersi smentire. Il richiamo di un libro non finito è un ronzio affascinante, inestinguibile: mi piace conviverci. Credo che i libri che ho abbandonato mi abbiano dato moltissimo ed è per questo che non intendo indicarne né di imperdibili, né di perdibili: ciascuno di essi si dà e deve darsi in entrambi i modi.

 

Adelmo Monachese

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