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”Shantaram” tra biografia e riflessione, un romanzo che insegue la ricerca del bene

Vi è mai capitato di aprire un libro, leggerne le prime pagine e avere l'impressione di aver spalancato una finestra; per poi sentire sul viso un'aria fresca, piacevole e primaverile?...
Pubblichiamo la recensione di Domenico Astuti a “Shantaram” di Gregory David Roberts per l’accuratezza dell’analisi e la passione con cui rende la bellezza dell’opera

Vi è mai capitato di aprire un libro, leggerne le prime pagine e avere l’impressione di aver spalancato una finestra; per poi sentire sul viso un’aria fresca, piacevole e primaverile? Un’aria che avevate dimenticato e quasi non ne ricordavate l’esistenza. Questo romanzo di una vita ci ha dato proprio questa piacevole sensazione. Ed anche le 1165 pagine che abbiamo avuto davanti agli occhi – e che ci hanno un po’ spaventato: ma è da tempo che riteniamo che un romanzo non possa essere più lungo di trecento pagine se non vuole essere autoreferenziale, egotista e torrenziale– si sono volatilizzate con una leggerezza piacevole. E’ raro in questo nuovo secolo, in cui la letteratura, il cinema e le arti in generale soffrono di una certa claustrofobia estetica, umana e morale, aver trovato questo romanzo ‘epico’ australiano che racconta errori e orrori fatti e osservati da un piccolo essere umano fragile ma mai domo o sconfitto. In fondo, passando dal ruolo del fuggiasco ricercato, a medico improvvisato per poveri e indigenti in un faticente slum di Bombay, diventando un attore nel film di Bollywood, ad essere un amico di mafiosi e giungendo persino a trovarsi combattente con i mujahideen islamici in Afghanistan e in Pakistan, il nostro Shantaram non fa altro che un viaggio dantesco alla ricerca della riconciliazione con se stesso e dei suoi errori giovanili; del voler rimanere coerente verso il bisogno di credere in qualcosa e forse della ricerca disperata di una figura paterna. Cosa è in fondo un rivoluzionario degli Anni Settanta se non colui che ha ‘negato’ il padre – sistema sociale, a volte lo ha ucciso e purtroppo, in qualche caso facendolo, ha ucciso se stesso?

Shantaram è un soprannome – che acquisisce il protagonista di questo romanzo autobiografico, che ci riporta direttamente al secolo scorso – che gli dà con grande intuizione la madre del suo migliore amico indiano – in lingua marathi vuol dire “Uomo della pace di Dio“ -. Infatti nelle ultime righe del libro (come nelle prime in cui ci svela la sua ’illuminazione’ improvvisa dopo tanto peregrinare), le parole da ‘riconciliato‘ che usa in prima persona sono: “Procediamo a piccoli passi. Rialziamo la testa e torniamo ad affrontare il volto feroce e sorridente del mondo. Pensiamo. Agiamo. Sentiamo… Che Dio ci aiuti. Che Dio ci perdoni. Continuiamo a vivere“. Ma chi è, e chi è stato, Shantaram o Slim o Gregory? E’ un leader studentesco di Melbourne dei primi Anni Settanta che nel giro di due o tre anni vede crollare il mondo intorno a sé, le lotte si depauperano, gli muore un figlioletto, si separa dalla moglie, crolla in una crisi abbastanza simile a quella di molti altri nelle sue condizioni: depressione, eroina, qualche rapina. Viene arrestato, torturato e riesce ad evadere rocambolescamente. Da quel momento è un latitante, ricercato in tutto il mondo. Nel 1982 giunge a Bombay, diventa subito amico di Prabakar una guida indiana furba e abile che lo introduce nella vera città, conosce alcuni europei che vivono lì, che trafficano in vario modo e si incontrano in un locale, il Leopold (una specie di Rick’s Café Américain di ” Casablanca ”) e si innamora di Karla, una giovane donna svizzera molto bella, inquieta e con un passato doloroso. Resta in questa città per dieci anni e quasi subito va a vivere in uno slum (un quartiere fatto di baracche di alluminio e pronte ad allagarsi al primo monsone), apre una specie di ambulatorio gratuito per le prime emergenze, conosce il principale boss della mafia di Bombay, Abdel Khader Khan, ne diviene amico e inizia a riciclare denaro sporco. In quel luogo alla fine del mondo, impara a conoscere la cultura indiana e le immani sofferenze della povera gente, affezionandosi a molti di loro e aiutandoli come può. Ma a causa della sua attività subisce la vendetta della più pericolosa maîtresse di Bombay: questa lo fa arrestare senza un reale capo d’accusa e resta in carcere, picchiato e maltrattato, per quattro mesi, finché grazie all’intervento di Abdel Khader Khan viene liberato. Inizia a lavorare per Khan, operando nel riciclaggio di valuta e nella contraffazione di passaporti e al contrabbando di armi a favore dei mujahideen afgani e durante una spedizione il gruppo è coinvolto in alcune azioni di guerriglia fino alle porte di Kandahar dove il suo padre-protettore Khan muore in combattimento. Lui resta ferito, verrà curato in Pakistan e stanco torna a Bombay convinto di dover lottare solo per ciò in cui crede e costruirsi una vita più tranquilla e onesta.

Con una linea narrativa semplice e immediata, ma anche con alcuni passaggi brutali un po’ ostentati e buttati lì con troppo distacco, “Shantaram”, non è solo una autobiografia scritta con grande maestria e leggerezza – e in molti passaggi empatica e commovente – bensì è il tentativo del protagonista di recuperare o iniziare un percorso esistenziale di rinascita, verso la scoperta del vero se stesso e di cambiare il punto di vista di quei valori che piuttosto che farlo volare gli impediscono di comprendere. Lim o Shantaram o Greg è una persona semplice e qualunque, con molte timidezze e molte debolezze, è in fondo un buono, e si muove nella vita come potremmo muoverci noi nelle sue stesse condizioni, né eroe né mito; si barcamena tra contemplazione, disegno del destino che non può prevedere e il grande senso di colpa verso di sé e i suoi cari che ha deluso con i suoi crimini e la sua condotta. Come ha scritto qualcuno, “Shantaram” non è solo un romanzo, ma è un vero e proprio viaggio fatto grazie all’incredibile vita del protagonista.

24 febbraio 2013

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