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“Open” di Andre Agassi, il tennis come pretesto per mettersi a nudo

D’accordo, il libro è di qualche anno fa. D’accordo, “non l’ha scritto lui. L’ha scritto J.R. Moehringer, uno che nel 2000 ha vinto il Pulitzer per il giornalismo: e che, obbiettivamente, è di una bravura mostruosa.” [cit. Alessandro Baricco, ne Una certa idea del mondo] Ho comprato solo di recente il libro Open per regalarlo a mio fratello, che ha fatto, ormai da anni, del tennis il suo passatempo sportivo. L’aver scoperto che Baricco l’ha inserito nei “migliori cinquanta libri letti di recente” mi ha dato lo slancio a leggere qualche pagina prima di incartarlo.
Non ho mai letto nessuna autobiografia di nessun campione sportivo, sebbene sia una ragazza che non si preclude, quasi mai, un genere letterario e alla quale piace seguire il mondo dello sport.

Nonostante mi sia avvicinata alla prima pagina con qualche piccolo pregiudizio, convinta che non avrei superato il capitolo primo, già dopo poche righe la storia mi aveva completamente incuriosito, tanto che il libro è andato a finire sul mio comodino prima che nella confezione regalo.
Non sono mai stata completamente lontana dal mondo del tennis, è vero. Padre, fratello, zii e cugini sono cresciuti sulla terra rossa, brandendo valorosamente una racchetta fin da piccoli. Ma questo libro non è solo per gli amanti di questo sport, per chi il tennis lo mastica più o meno bene.
Perché il tennis è solo un contorno, un pretesto che il tennista americano usa per mettersi a nudo. O anche solo una metafora della vita. Dipende dai punti di vista.

Perché Open non è la storia di Agassi, grande campione, delle sue vittorie e sconfitte, e della sua vita più o meno spericolata fuori dai campi. E’ la storia di un bambino che non pensava affatto di fare del tennis la sua vita, che preferiva giocare con i suoi fratelli piuttosto che allenarsi ogni giorno, che preferiva lo sport di squadra dove sarebbe stata di tutti la gioia di una vittoria o la colpa di una sconfitta, un bambino che avrebbe preferito persino dedicare più tempo allo studio, anziché sentirsi stupido per non apprendere velocemente quanto i suoi compagni. Open è la storia di un adolescente, buttato quasi brutalmente nel mondo dei professionisti, che cerca di trovare la sua identità come un qualsiasi ragazzo della sua età, sebbene con qualche dollaro in più in tasca; un adolescente, che trova nella ribellione e in un suo personale dress code non un modo per distinguersi e sentirsi superiore alle regole, come gli veniva rinfacciato dalla stampa, ma un modo per manifestare, a suo padre per primo, quel suo malessere antico. Un malessere derivato dalla consapevolezza di non aver avuto vie alternative per il suo futuro, di sentirsi intrappolato all’interno di quelle linee bianche e in tutte quelle contraddizioni che hanno caratterizzato la sua vita. Prima tra tutte, il sentimento di odio per quello sport, che lo aveva portato sulle più alte vette e che lui quasi considerava un mezzo come un altro per guadagnarsi da vivere, un puro dovere in quanto l’unica cosa che forse sapeva fare, salvo poi provare amarezza per le sconfitte e dispiacere per il ritiro definitivo dal circuito. Open è la storia di un uomo che deve combattere contro i suoi demoni, rendendone conto a tutti, e che fatica a trovare il suo posto nel mondo, un posto accogliente e sereno.

Personalmente, trovo Open uno di quei libri sui quali, una volta riposto sul comodino a fine lettura, se non si ha voglia di dormire, ci si può rimuginare un po’ sopra, pur non essendo un trattato filosofico. A parte qualche piccola nozione di tennis che si impara, l’esperienza di questo uomo ci fa ricordare che a volte non tutto ciò che si fa o si deve fare viene vissuto con assoluto piacere, ma non per questo non ci si deve mettere tutto l’impegno e tutto il sudore possibile; perché, in fin dei conti, se una sconfitta brucia è perché ce ne importa davvero qualcosa, anche senza volerlo ammettere.
Questo libro lo consiglio a tutti, giovani e meno giovani, sportivi e non, genitori e figli, in quanto alla fine è anche di questo che parla il libro. Del rapporto tra padre e figlio. Di quello che un genitore non dovrebbe mai fare, ovvero proiettare le sue ambizioni sul figlio, nel triste tentativo di vivere attraverso di lui ciò che non ha avuto modo di sperimentare di persona.

Ma non ne è valsa la pena? Non è diventato famoso? Non aveva fatto bene il padre a proseguire la sua personale crociata? Chissà il talento sprecato se avesse lasciato il figlio giocare a calcio…
Non credo sia facile dare una risposta.
Uno dei problemi è che ci si chiederà sempre fin dove si può spingere l’amore e la fiducia di un padre nei confronti del proprio figlio. E l’altro è che probabilmente un figlio troverà sempre un motivo per lamentarsi: si lamenterà se non c’è nessuno a credere in lui e si lamenterà, al contrario, se le aspettative sono troppe alte.
Insomma, la storia di un po’ tutti noi.

Una piacevole scoperta. Lo stile di Moehringer, in una narrazione semplice e schietta, fa il resto. Senza contare che si trova, finalmente, tra le righe una risposta alla domanda delle domande: perché i tennisti parlano da soli, più di chiunque altro?
Unica avvertenza prima di leggere il libro. Complice adesso anche l’inizio degli Internazionali di tennis a Roma, la voglia di prendere in mano una racchetta e cimentarsi in questo sport può essere dietro l’angolo.

“Sentirete un sacco di applausi in vita vostra, ragazzi, ma nessuno sarà tanto importante per voi quanto l’applauso…dei colleghi. Spero che ciascuno di voi lo senta, alla fine.” A. Agassi

Anna Chiara Morciano

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