Sei qui: Home » Libri » Recensioni » “La gente per bene” di Francesco Dezio, lo sconquasso della provincia italiana

“La gente per bene” di Francesco Dezio, lo sconquasso della provincia italiana

A chi ha apprezzato lo scrittore veneto Vitaliano Trevisan in Works (Einaudi 2016), vorrei suggerire la lettura di Francesco Dezio, La gente per bene (TerraRossa edizioni 2018, pp. 207, euro 15), un testo che parla anch’esso, attraverso il tema ‘Lavoro’, del totale sconquasso del tessuto sociale della provincia italiana tra corruzione, speculazione edilizia, crisi economica, sfruttamento e disoccupazione. Il romanzo è stato pubblicato da un editore indipendente, TerraRossa, che gli addetti ai lavori stanno apprezzando anche per la coraggiosa scelta di riportare in libreria, con la collana Fondanti, opere che negli scorsi decenni furono apprezzate dalla critica e dal grande pubblico ma che da anni erano fuori catalogo. Tra queste, dello stesso autore, Nicola Rubino è entrato in fabbrica, romanzo pioniere della letteratura precaria, già pubblicato da Feltrinelli nel 2004.

E i primi capitoli del romanzo ricordano molto l’opera d’esordio di Dezio: i soprusi (come quello di allungare l’orario di lavoro senza retribuzione, o di essere reperibile in periodi di ferie per qualunque guasto ai macchinari o difetti di software), gli sgambetti tra colleghi e le ripicche si consumano questa volta non in una grande multinazionale ma nei capannoni di piccole imprese tra Puglia e Basilicata, dove il protagonista presta servizio come disegnatore AutoCad. Queste esperienze lavorative assai simili tra loro si susseguono in una serie di capitoli di agile lettura, ma ogni volta cambia la tecnica narrativa, grazie all’uso del flashback, a variazioni di linguaggio (la maggiore o minore presenza del gergo tecnico, del dialetto, dell’idioletto manageriale) e alla vivacità dei dialoghi, ad ellissi, che chiamano in causa l’intelligenza del lettore, all’uso di documenti inseriti nella narrazione, con una tecnica mutuata da David Foster Wallace. O ancora: il paesaggio stuprato dalle trivellazioni petrolifere, dalle discariche di scorie, dalla crescita di distretti industriali (soprattutto del mobile imbottito) moltiplicatisi nell’abusivismo e nell’assenza di programmazione, in un’orgia di sviluppo che è finita con licenziamenti e delocalizzazioni.

I capitoli dell’ultima parte, invece, intitolata Disoccupazione, sono spesso monologici, e costringono a letture in apnea per pagine e pagine, mentre si sprofonda nello stato allucinatorio di una solitudine senza speranza, di una menomazione sociale inesorabile, quella della disoccupazione cronica dei quarantenni: “Camminiamo io e me stesso su un tapis roulant e la citta finta ci scorre davanti, l’attraversiamo rimanendo sempre nello stesso punto. Cambia lo scenario, che continua a svolgersi davanti a noi mentre, con una costanza stoica, allunghiamo le nostre gambe sul nastro di gomma. Passeggiamo e riflettiamo, artificialmente scontornati in questo surrogato di realtà. Veniamo attraversati da caseggiati, rotonde, dalla stazione, dal corso, dalla cattedrale federiciana, da vicoli piazze claustri del centro storico, da altri palazzi ancora; piove, poi torna il bel tempo, esce il sole, dopo un po’ nevica (ho le prove), c’è vento, vento fortissimo, si rimette a piovere. (…) Ho da farti una rivelazione, dice questo me all’altro me, ho da confidarti un segreto che poi in fondo non è nemmeno un segreto: il lavoro è finito, rassegnati, basta, non illuderti, non ce n’è più. Lavoro non ce n’è. Non ti credo! Cucù? Lavoro, dove ti sei andato a nascondere?” (pag. 187)

La letteratura italiana mostra ancora una volta di avere scrittori capaci di osare forme audaci di narrativa, unite all’analisi critica dell’innesto del nuovo in un mondo ancora contadino (in particolare nelle prime pagine, che ricostruiscono la storia familiare) con l’ubriacatura consumistica degli anni Ottanta e Novanta, prima del collasso economico degli anni Duemila. Il finale, aperto ma al di qua di uno scatto della volontà che potrebbe cambiare la vita del protagonista, rappresenta efficacemente la totale erosione delle possibilità progettuali delle ultime due generazioni di italiani, con la sperimentazione di un racconto libero dalla dittatura della trama.

Gina Clemente

 

 

 

© Riproduzione Riservata