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“Ce ne andremo in fila indiana”, un libro dal grande spessore letterario

Mi è capitato di leggere “Ce ne andremo in fila indiana” per caso, su consiglio di un’amica che, anche lei per caso, aveva assistito alla presentazione del romanzo in quel di Rovereto l’estate scorsa. Si tratta di un volumetto piccolo e scorrevole, sulle 170 pagine, ma denso, compatto e con una forza d’attrazione paragonabili (per me che amo l’astronomia) a quelle di una nana bianca. Per questo l’ho letto tutto d’un fiato, e non è detto che non lo rilegga a breve, dato che mi è rimasta la netta sensazione che ci sia molto altro da scoprire e molto di più su cui riflettere.

L’autore, un certo De Palma, è un esordiente, dunque nulla o scarsissima visibilità sui canali dell’editoria mainstream (anche se in rete qua e là qualche recensione la si trova); così come la piccola e coraggiosa casa editrice che l’ha messo in circolo, l’Ortica Editrice, società cooperativa d’ispirazione libertaria che, tanto per farvi capire di cosa parliamo, così chiosa alla fine delle sue pubblicazioni: “L’Ortica editrice persegue con i fatti quella solidarietà così lontana dall’attuale competizione fratricida. È animata […] dallo spirito di cooperazione, dall’amicizia, dalla fratellanza e dall’armonia possibile fra tutti gli esseri viventi”.

Veniamo dunque alla sorprendente “stella” (letteraria) in cui mi sono imbattuta. E’ il racconto, a metà fra l’autobiografico (credo) e l’invenzione narrativa, della vita di Andrea Argenti (nel corso del romanzo detto anche semplicemente AA), seguita passo passo dal giorno in cui decide di mollare tutto e ritirarsi a vivere in una baracca fino alla sua morte, proiettata in un avveniristico e disumanizzante futuro prossimo. Avrei potuto anche dire “alienante”, ma ho preferito risparmiarmi l’aggettivo in quanto la condizione esistenziale del protagonista è per così dire alienata fin da subito, fin dall’inizio della storia, e forse già da prima, come fanno supporre alcuni flashback che lo ritraggono felice e contento (si fa per dire) nel suo ufficetto da impiegato di provincia o nell’appartamento della sua seducente e insoddisfatta fidanzata O.

Bene, perché AA decide di mollare tutto per vivere il resto dei suoi giorni ai margini della società civile, o meglio incivile, come dirà lui stesso nell’intenso e fluviale monologo finale? E cosa esattamente decide di mollare? Tutto qui significa proprio tutto: casa, amore, lavoro, soldi, ricordi, possibilità di una vita cosiddetta normale. In cambio di che cosa? Se si escludono qualche gatto randagio e un dolcissimo cane, Robespierre, praticamente in cambio di nulla. Il fatto è che AA è ossessionato dallo “spettro della libertà” ed è alla continua ricerca di una vita autentica, condita da aria fresca e pulita, dal libero arbitrio e da un salvifico senso di leggerezza. A ciò vanno aggiunte la solidarietà umana e la disponibilità che dimostra sempre, anche dal suo remoto e insignificante cantuccio di legno, nei confronti degli ultimi, degli umili, siano essi clochard alla deriva o una sfortunata ragazza dell’est di nome Eva.

Un’ultima nota la voglio dedicare allo stile. Come ho accennato all’inizio, il libro si legge agevolmente perché è scritto davvero bene, in modo chiaro, piacevole ed essenziale, ma anche profondo e vibrante in non pochi passaggi illuminanti. Inoltre, lo spessore letterario dell’opera traspare dai riferimenti che l’autore ha voluto disseminare lungo il percorso, molto probabilmente un omaggio più o meno esplicito ad alcuni grandi maestri della letteratura di ieri e di oggi, che lo hanno certamente influenzato: da Dante a Thomas Bernhard, da John Fante a Michael Cunningham.
Maria Rossi Scala

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