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“A sud del confine, ad ovest del sole” di Murakami, un libro che può insegnare molto

A sud del confine, ad ovest del sole” è il secondo libro di Murakami che leggo, dopo Norwegian Wood. Mi è stato consigliato proprio perché simile a quest’ultimo, forse perché non molto surreale e con uno stile più limpido di altri libri dell’autore.

E’ una storia di amore- o non amore- che nasce tra Hajime e Shimamoto, ragazzini di 12 anni, uniti dal fatto di essere entrambi figli unici in un Giappone in cui le famiglie sono numerose e chi non ha fratelli viene additato dalla società come viziato e incompleto; nata come una genuina ma profonda amicizia tra due outsider, in realtà la relazione tra i due si protrarrà per tutta la loro vita, nonostante una brusca interruzione di 25 anni in cui i protagonisti vivono completamente separati le diverse esperienze dell’età adulta, e che riprende quasi per caso intorno ai 38 anni d’età e sconvolgerà le loro esistenze.

E’ narrata dal punto di vista di Hajime, il vero protagonista del romanzo, il quale vive con una costante inquietudine l’allontanamento da Shimamoto; ogni relazione che ha è fallimentare o, nel migliore dei casi, meravigliosa ma incompleta, fino a renderlo uno schiavo dei ricordi e totalmente dipendente dalla vecchia amica, che ricompare casualmente appunto nell’età adulta.

E’ una storia che inizia in maniera molto semplice e lineare ma tiene incollati fino all’ultima pagina, soprattutto per l’enigmatico personaggio di Shimamoto: infatti è descritta spesso come distante, come una visione (e in questo forse rivediamo alcuni momenti di Norwegian Wood tra Watanabe e Naoko quasi al limite dell’onirico, e c’è probabilmente un’anticipazione dei romanzi più visionari che hanno reso celebre l’autore) e soprattutto Murakami è abilissimo a far credere di conoscere questa donna attraverso gli occhi di Hajime, per poi riportare sia il lettore che il protagonista alla realtà e affrontare il fatto che Shimamoto non sia più quella di un tempo, che la vita ha segnato e ferito e formato quei ragazzini di 12 anni e la loro speciale amicizia; che nulla del passato è recuperabile. Inoltre, ogni descrizione psicologica della donna è vaga, impalpabile; è circondata da un alone di mistero e piena di parole non dette, che portano il lettore a formulare ipotesi e divorare il libro fino all’ultima pagina per avere delle risposte. Che non ci sono. Proprio questo è il punto cardine del romanzo: non concludere.

Murakami è un maestro nell’aprire numerose porte, numerose possibilità e lasciarle in sospeso, sia per quanto riguarda gli elementi più surreali e inspiegabili che nemmeno il protagonista riesce a comprendere, sia proprio dal punto di vista della trama. Non ci sono dei veri e propri buchi, solo molti sottintesi; soprattutto una delle due storyline del romanzo è costellata di non detti, di bagliori che subito si spengono e ha una conclusione che fa restare allibiti i lettori ma soprattutto Hajime, che vive esperienze al limite del reale e non riesce ovviamente a capire cosa stia veramente succedendo.
Al contrario di ciò che fa dire al suo protagonista, ovvero che “viviamo un numero di possibilità limitato”, Murakami ci mostra attraverso la costruzione del romanzo che le possibilità sono molteplici se non infinite. Che ogni azione inconclusa ha in realtà numerose chiavi di lettura, e spesso incaponirsi per comprendere il reale è nocivo.

Consiglio questo libro soprattutto a chi, come me, ha sempre bisogno di punti fissi e paletti e soprattutto rimugina troppo sul passato: spesso le cose ci sfuggono, sono incomprensibili e svaniscono; come lo stesso Murakami scrive, basta anche solo una piccola cosa che va storta a cambiare l’intero corso di una storia d’amore o di una vita intera, e non possiamo riparare (i cosiddetti “punti fissi” della storia che se anche avessimo una macchina del tempo non potremmo cambiare, per strizzare l’occhio a una delle mie serie tv preferite). Shimamoto dice sempre “forse” e “per un po’” ma dice anche che non vive con mezze misure: un’antitesi che lacera questo personaggio e lacera contemporaneamente tutti i lettori che vivono nell’incertezza dei forse, ma d’altra parte hanno bisogno di punti fermi e di spiegazioni chiare e concise.

E’ un libro che può insegnare molto, anche a sfruttare il tempo nel migliore dei modi: Hajime conduce una vita ammorbata dai ricordi di un passato che non può cambiare, costellata di “potevo” e “dovevo” che presto si tinge di toni scuri e depressi, complice un’ombra di decadenza e morte che pare avvolgere la sua amata. Hajime dovrebbe insegnarci che spesso prendere una decisione e portarla a termine, e sfruttare ogni momento per vivere davvero, sono le cose che possono davvero salvarci da un mondo frenetico e incomprensibile.
Per chi ha sempre bisogno di avere il controllo, questo libro è come un imprevisto di quelli piacevoli, in cui per una volta ci si può lasciare andare e condividere l’inquietudine di Hajime sperando ci sia ‘un qualcos’altro’ a ovest del sole.

 

Chiara Barlassina

 

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