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Raul Montanari, al centro della scrittura l’interrogazione incessante sul destino e sul senso della vita

Raul Montanari ha una vastissima produzione letteraria ed è anche autore di saggi e di testi teatrali, sceneggiatore di film e docente di scrittura creativa. Il suo ultimo romanzo (ne ha scritti dodici) è Il tempo dell'innocenza (Baldini e Castoldi, 2012)...

Raul Montanari ha una vastissima produzione letteraria ed è anche autore di saggi e di testi teatrali, sceneggiatore di film e docente di scrittura creativa. Il suo ultimo romanzo (ne ha scritti dodici) è Il tempo dell’innocenza (Baldini e Castoldi, 2012).

 

Raul Montanari è il padre del post-noir e la prima domanda che voglio fargli riguarda questo genere letterario: di che si tratta e perché hai sentito il bisogno di un’evoluzione del noir verso una dimensione meno investigativa?

Ho coniato la definizione di post-noir nel 2009, quando è uscito uno dei miei romanzi di maggiore successo, Strane cose, domani. In realtà io ho scritto solo due romanzi che possono ascriversi al genere noir: Sei tu l’assassino e Dio ti sta sognando, entrambi usciti negli anni ’90. In tutto il resto della mia produzione, che conta una ventina di titoli, quella che tu giustamente chiami dimensione investigativa è assente del tutto. È vero però che nelle cose che scrivo sono presenti elementi che possono far pensare al noir: un senso generale di minaccia, una forte tensione nell’intreccio, la violenza come esito possibile di questa tensione. Su tutto però è preponderante l’introspezione dei personaggi e un’interrogazione incessante sul destino e sul senso della vita. Ho parlato di post-noir nel senso in cui si usa la definizione post-rock: strutture in cui si sente il ritmo “rock” del noir, ma che risultano più dilatate, più oniriche e profonde rispetto al vero poliziesco.

 

Secondo te la narrativa ha scopi ulteriori rispetto a quello, immediatamente percepibile, di raccontare storie?

Certo. Anzitutto la prosa può interessare il lettore anche in assenza di una storia appassionante, solo in virtù di una grande scrittura e di contenuti originali. Basta pensare ad autori come Busi o Siti, le cui trame inconsistenti svaniscono nel momento in cui si chiude il libro, mentre il fascino dello stile e i contenuti disturbanti rimangono nella memoria del lettore.

Le storie sono importanti perché l’uomo le usa per interpretare la sua vita e il mondo: noi non siamo capaci di “pensarci” senza strutturare la nostra stessa esistenza con le cadenze di un romanzo, con i suoi capitoli, i colpi di scena, i personaggi principali e i secondari  e così via. Oltre a questo, però, bisogna ricordare che il lettore di livello desidera sempre che al netto della storia gli rimangano spunti di riflessione, insegnamenti, concetti. Sai, quelle cose che uno sottolinea nel leggere e magari trascrive sul proprio diario, o mette su Facebook, e che aggiungono un filo alla sua sapienza del vivere. Questo aspetto della letteratura è molto sottovalutato nella narrativa di genere, per esempio. Io ripeto sempre che un lettore dovrebbe poter dire: “Accidenti, questo non l’avevo mai pensato, prima di leggere il libro”; oppure: “Questo credo di averlo sempre pensato, ma non avevo le parole per dirlo… l’hai detto tu per me”.

 

Tu insegni scrittura creativa; ti chiedo di tracciare un identikit delle persone che la frequentano, delle aspirazioni che le muovono e che immagino non uniformi; non tutti, penso, desiderano diventare scrittori. E quali sono le cose fondamentali che insegni o che almeno un aspirante scrittore dovrebbe imparare: gestire la trama? Personalizzare lo stile? Trovare la propria misura narrativa (breve, lunga)?

Sono molto orgoglioso della mia scuola, perché negli ultimi anni è quella che ha avuto in Italia i risultati più eclatanti: solo nel 2013 dodici allievi hanno pubblicato con i maggiori editori, da Mondadori a Rizzoli, da Feltrinelli a Guanda, a Sperling, a Fazi, Fanucci e altri; e uno di loro, Giovanni Cocco, è arrivato terzo al Premio Campiello.

L’insegnamento della scrittura creativa deve basarsi su un doppio livello. Da una parte la teoria, che è tantissima e comprende il linguaggio, la trama, i personaggi, gli elementi materiali della scrittura narrativa (dialoghi, descrizioni, digressioni, scene), il tempo, il punto di vista, le diverse stesure di un testo. Dall’altra c’è appunto il lavoro sul testo, in cui il docente deve poter accompagnare l’allievo a scoprire la propria vera voce e ad affinare gli strumenti adatti a rendere efficace il tipo di storie che vuole raccontare. In questa fase è essenziale non solo che il docente abbia esperienza e capacità, ma che annulli il proprio gusto letterario, insomma che accetti da parte dell’allievo anche scelte narrative lontane da quelle che lui stesso ha fatto come autore o che predilige come lettore. Infatti una delle cose di cui sono più contento è che gli oltre sessanta libri di miei allievi arrivati a tutt’oggi alla pubblicazione coprono tutti i generi, dal postmoderno alla chick-lit, dal romanzo storico al poliziesco, dal romanzo psicologico al fantasy. Uno di loro ha scritto addirittura un trattato di matematica applicata a modelli economici…

L’identikit dei frequentanti, che ormai nell’arco di un anno sono più di cento, non esiste: sono persone molto varie per età, curriculum di studi, lavoro. Non c’è dubbio che la maggior parte di loro venga da me con l’ambizione di diventare uno scrittore pubblicato. Ma molti, che magari scoprono al corso di non avere abbastanza talento per aspirare a tanto, sono comunque affascinati dal gioco di smontare insieme a me i meccanismi della scrittura, diventare come minimo lettori molto più consapevoli e più intelligenti. È già tantissimo.

 

Cosa legge Raul Montanari? Hai un autore o un libro di culto?

Leggo circa settanta libri l’anno, quindi capisci che non è facile per me fare riferimento a un autore o a un libro. Meglio forse se cito i miei primi amori, quelli che quando ero ragazzino mi hanno fatto venire voglia di scrivere anch’io delle storie: Poe, Kafka, Mann, Stevenson, Shakespeare, Calvino, insomma i grandi visionari. Se proprio dovessi scegliere direi che Poe è stato il primo per me, Kafka il più grande di tutti e Shakespeare quello che porterei sulla classica isola deserta, anche perché sarebbe come portare il mondo.

 

Una domanda giocosa: se non fossi diventato uno scrittore che altro ti sarebbe piaciuto fare?

In campo artistico mi sarebbe piaciuto fare il musicista, il compositore. Ci sono due tipi di scrittori: quelli che hanno una sensibilità visiva e quelli che ce l’hanno acustica, e io appartengo al secondo gruppo. Infatti ho anche studiato abbastanza a fondo la teoria musicale, pur non suonando nessuno strumento – quindi era proprio la composizione ad attirarmi. A una domanda simile uno dei miei scrittori italiani preferiti, Moravia, rispose senza esitare che avrebbe voluto essere pittore.

A dirti la verità, però, nell’eventuale prossima vita mi piacerebbe cambiare completamente. Per esempio fare il giocatore di scacchi professionista, come ho sognato quando ero un ragazzino cresciuto col mito del famoso Bobby Fischer. Ecco, se il demonio stanotte mi proponesse di cedergli l’anima per svegliarmi nei panni di Magnus Carlsen, il ventitreenne campione del mondo in carica, un pensiero lo farei! Tanto più che non credo che la mia anima valga granché, attualmente.

 

Grazie per il tuo tempo e le tue risposte.

Grazie a voi!

Lia Messina

6 dicembre 2014

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