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Quel bambino nella foto sono io

Giuseppe Catozzella, autore di "Non dirmi che hai paura" in cui parla della storia della giovane atleta somala Samia, olimpionica a Pechino poi morta su un barcone al largo di Lampedusa, racconta il dramma dei migranti dopo la terribile storia del piccolo Aylan. Per gentile concessione dell'autore, riprendiamo il suo intervento apparso su Repubblica.

Sono sessantamila i morti accertati, solo negli ultimi anni. “Accertati” significa che sono molti di più: il doppio, forse il triplo. Non è una guerra, non una purga. Sono i corpi che quello che noi chiamiamo “il nostro mare” ributta a riva, sulle spiagge dove prendiamo il sole, oppure ingoia per sempre. Sono cifre spaventose, che giustificano il paragone anche soltanto simbolico con il Male assoluto: è un distillato Olocausto quotidiano.

Quand’ero studente mi capitava di pensare che fosse impossibile che un’intera popolazione, all’epoca del nazifascismo, non sapesse ciò che accadeva nel cuore dell’Europa dentro i campi di sterminio. Crescendo, ho letto e ho saputo: tutti sapevano, non poteva essere altrimenti. Tutti sapevano in Germania, tutti in Polonia, tutti in Italia. Eppure lo stesso è accaduto: questa è la considerazione che fa più male. Nessuno, oggi, può dire di non sapere ciò che da decenni accade nel Mediterraneo, o lungo i confini, le frontiere mobili (permeabili o meno), che congiungono il Sud del mondo (Africa, Turchia orientale) al Nord (le sue prime porte: Italia, Grecia, e poi Balcani, Ungheria). Tutti sappiamo, eppure lo stillicidio quotidiano continua, sotto i nostri occhi.

Poi accade un fatto, non più drammatico di migliaia di altri, soltanto un evento in più, superato il giorno dopo da un altro uguale: un fotografo scatta una fotografia. Un bimbo siriano è riverso a faccia in giù sulla battigia, le onde lo accarezzano, avanti e indietro. È morto, non c’è dubbio su questo. Il potere di questa fotografia è dirompente; pare, per un giorno almeno, aver risvegliato tutti coloro che già sapevano.

A uno come me che da anni si occupa di osservare le migrazioni e di scriverne, viene fatto di chiedersi: perché questa fotografia è così dirompente? Credo la risposta sia tutto sommato semplice: quel bimbo non è nero come la pece. Quel bimbo non è nero come il carbone, quel bimbo è siriano. Quel bimbo non è vestito di stracci, ma con una maglietta e dei pantaloncini dignitosi, carini. L’immedesimazione è più facile, più immediata. Ecco, è il potere dello specchio, lo stesso della letteratura e dell’arte in generale: quel bimbo sono io quand’ero piccolo. Quel bimbo è mio figlio oggi.

Questa fotografia riesce nel miracolo dell’arte: ciò che vedo non soltanto parla di me. Ciò che vedo sono io stesso riverso su una spiaggia. Vedo la mia immagine senza vita. La posso ingrandire, anche, posso studiare cosa accade ai miei capelli quando vengono cullati dal mare e dalla sabbia, come si gonfiano le mie articolazioni; perdo le scarpe o no, la pancia si gonfia a dismisura? Quella fotografia sono io. E dunque la posso fare mia, la posso pubblicare, la posso condividere.

Ecco che una fotografia riesce laddove non possono le parole di chi è deputato alla politica, oppure a raccontare i fatti, sui giornali. Una fotografia elimina le mediazioni. Sono io che guardo me. Ma questa visione terrorizza. Va appunto condivisa, per spartirne il peso abnorme con chi guarda e a sua volta si riconosce.

Cosa vedo quando vedo me stesso, bambino, riverso su una spiaggia? Vedo che la responsabilità di quella mia stessa morte è mia. Come possiamo, viene immediatamente da domandarsi, lasciare morire decine di migliaia di ragazzi e ragazze, bambini e madri, ogni giorno, sotto i nostri occhi che sanno? Come possiamo lasciare che tutto ciò accada, ogni giorno, leggendo i bollettini degli arrivi e dei morti? La maggior parte di queste persone, lo sappiamo, scappano da carestie, persecuzioni e guerre che l’occidente ha generato e alimentato. Prendiamo, a esempio, la nostra Somalia e la nostra Eritrea col suo dittatore Afewerki, che hanno generato più di quattro milioni di profughi. Lì, la nostra responsabilità è diretta.

E allora lo sappiamo, e di fronte al potere di una immagine per un giorno ne siamo certi: ci sono cose da cambiare immediatamente. Aprire vie d’accesso legali ai profughi, affidando a Unhcr la gestione delle tratte. Attivare un programma europeo coordinato che sostituisca Frontex e sia atto al salvataggio in mare. Sospendere il trattato di Dublino e consentire il rilascio di permessi temporanei e la circolazione dei profughi in Europa. I trafficanti, oggi, sono l’unica soluzione per scappare dalla guerra. Ci vuole un’alternativa legale. Occorre che l’Europa si faccia e si riconosca su un principio umano, prima ancora che umanitario, di accoglienza.
Tutto questo lo sappiamo per un giorno.

Forse dunque occorrerebbe prendere quella foto, stamparla e incollarla alle nostre scrivanie, nei nostri studi. Non per perderci in essa, ma per non dimenticare ciò che in fondo, siamo: migranti. Nessuno di noi è infatti esente dall’essere frutto di una catena strerminata di migrazioni. È la nostra forza, è la nostra bellezza, sono gli strati che fanno la nostra anima. Quella foto dice che deve essere dato un futuro a chi scappa. Altrimenti i mostri siamo noi, e da quello non c’è verso di scappare.

Giuseppe Catozzella

8 settembre 2015

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