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Primo giorno di scuola, un terrore da prima pagina

Riaprono le scuole. Abbiamo chiesto a Silvia Zucca, autrice del libro "Il cielo dopo di noi", di raccontarci un ricordo legato al suo primo giorno di scuola

MILANO – In questi giorni nella maggior parte delle città italiane riaprono le scuole. Per l’occasione, abbiamo chiesto a Silvia Zucca, autrice del libro “Il cielo dopo di noi“, di raccontarci un ricordo legato al suo primo giorno di scuola.

 

Avevo già deciso che la scuola non mi piaceva. Adesso potevo tornare all’asilo, grazie? Avevo provato. Era andata male. Non ero una che si incaponiva per far andare per forza le cose. Quindi, a quel punto, se la chiudevamo lì – pari e patta – per me andava bene. Non si sarebbe fatto male nessuno.

Avrei preso di filato la porta a vetri, sarei corsa via per il lungo corridoio costeggiato dalle panche di legno chiaro, e ganci, già in attesa dei cappotti invernali, avrei raggiunto lo scalone e il rumore delle mie scarpe di vernice sarebbe rimbalzato da una parete all’altra, fin di sotto, come i botti di capodanno. Poi ci sarebbe stato da attraversare la sala grande dove facevamo la ricreazione quando faceva freddo, da infilare un altro corridoio, da salire altre scale…

La mia scuola si chiamava Santa Giuseppa Rossello e lì avevo fatto già anche l’asilo. Il passaggio dalla materna alle elementari, in fondo, non avrebbe dovuto essere questo gran trauma. Stesso edificio, stessi ambienti colorati – conosciuti – stesso pavimento, ritmi, suore, facce, compagni di classe… Eppure, mentre me ne stavo lì seduta al mio banco, con le gambette ancora corte a penzoloni e il foglio davanti, sentivo che era cambiato tutto nel giro di un’estate. Che mi avevano fregata.

La mia amica Lycia e io ci avevamo anche provato ad alzarci. Dopo la campanella, avevano giocato al negozio. “Vuole provare questo, signora?”, “Sì, grazie”, “Le sta bene”, “lo compro”. La maestra per un po’ ci aveva lasciato fare. Poi, col suo sorriso ritagliato in un caschetto scuro, ci aveva chiesto di fare un gioco tutti insieme. E allora avevamo spostato i banchi unendoli a ferro di cavallo, poi eravamo tornati a sedere.

“Aprite il sussidiario alla pagina…”

Aveva già preso una piega che non mi piaceva. Quella roba assomigliava al gioco del silenzio che le suore ci imponevano, e che non era un gioco, l’avevo capito benissimo, ma solo un modo per far riposare loro le orecchie.

“Adesso a turno proviamo a leggere.”

LEGGERE.

Solo allora avevo tolto gli occhi dalla ragazzina con la coda di cavallo che mi si era messa a fianco e li avevo puntati sulla pagina sotto di me.

Lì c’era il disegno di un angioletto biondo e ricciuto, con la vestina azzurra e le mani giunte in preghiera. Era la sola cosa comprensibile, la sola cosa che capivo di quel foglio, che per il resto era trapuntato di segni neri, disposti in file ordinate.

Il bambino del primo banco aveva detto qualcosa, tentennando. Sillabava a tentoni la prima riga. Mentre io venivo risucchiata dal buio.

Non si può dire che non le avessi già viste quelle cose scure che somigliavano a zampette nere, le lettere. Ma di solito non spettava a me sapere cosa significavano. Erano sulle riviste, sui libri di Mamma, sul suo ricettario ingiallito, in TV ogni tanto, come all’inizio dei cartoni animati. Ma allora bastava chiamare lei per sapere cosa dicessero.

Invece Mamma ora era in ufficio con Papà e la maestra sembrava dare per scontato che ce l’avessi anch’io quella specie di superpotere. Io però lì sopra non ci vedevo niente.

Mentalmente, mi sembrava di prenderle a calci, quelle lettere, cercare di sistemarle, di dare loro delle forme che potessi conoscere e interpretare come facevo coi disegni.

Erano anni che riempivo pagine interminabili di aste colorate, e poi di composizioni più complesse, montagne, alberi, il sole, e donne con tacchi lunghissimi che non permettevano loro di toccare terra.

Quelle però sì che erano forme sicure, riconoscibili, anche se tratteggiate malamente. Le potevi scambiare con qualcosa di concreto. Ma le lettere? Come facevi a sapere che quella cosa lì era un fiore invece di un treno, o un divano a tre piazze?

Alcuni compagni sbagliavano qualcosa nel tentativo, per fortuna, qualcun altro ci azzeccava tirando a indovinare. E il mio turno di saltare nel vuoto si avvicinava inesorabilmente.

La ragazzina con la coda di cavallo mi diede il colpo di grazia snocciolando, una dopo l’altra, le parole fuori dalle sue labbra. Poi, tenne compiaciuta il mento in alto e lo sguardo dritto. Col cavolo che mi avrebbe aiutata.

La Maestra mi fece cenno di proseguire.

Ecco, il ricordo più forte che ho del mio primo giorno di scuola è la sensazione di impotenza di fronte alla pagina scritta.

Come quei sogni in cui ti rendi conto di essere uscito nudo di casa, o di essere salito su di un palcoscenico senza sapere un’Acca delle battute. Un’Acca… a sapere come poteva essere fatta!

Potevo fare una cosa soltanto. E la feci.

Invocai un miracolo.

Dopotutto, non era una scuola religiosa, quella? E poi, come avevamo stabilito con Sara pochi mesi prima, non eravamo, noi due, principesse gemelle con poteri speciali, che venivano da un’altra galassia? Mi concentrai. Pronta a quell’implosione che avrebbe generato in me la conoscenza.

Tre. Due. Uno…

E successe. Imparai a leggere. O, almeno fu così che scrissi molti anni più tardi, a proposito del mio primo giorno di scuola.

La realtà fu molto più banale, e dura.

Rimasi immobile, come pietrificata, mentre la ragazzina con la coda, in un incredibile sprazzo di benevolenza, tentava di mormorare qualcosa per trarmi d’impaccio.

In un certo senso però il miracolo avvenne davvero: la maestra non mi sgridò né mi derise. Disse che andava bene così. Che avrei imparato.

Ah, sì, l’avrei imparato. L’avrei imparato davvero. Anche a dirlo tutto di filato, quel maledetto alfabeto. Dalla A di Asilo sarei arrivata fino alla prima lettera del mio cognome. Le lettere le avrei messe insieme, e poi smontate, frazionate in sillabe, plasmate in aggettivi, verbi, avverbi… E non solo.

Quel primo giorno non lo potevo sapere, ma io quelle lettere avrei finito per prenderle davvero in simpatia. In quel momento pensavo che mi avrebbero assalito, arrampicandosi sul mio braccio come ragnetti velenosi, invece, pian piano avrebbero iniziato a proporre parole e queste a trasformarsi in quei mondi da esplorare di cui tanto avevo favoleggiato e giocato con le amiche. E non le avrei lasciate più.

 

Silvia Zucca

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