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Primo giorno di scuola, amicizie speciali nate sui banchi delle elementari

In occasione dell’inizio del nuovo anno scolastico, abbiamo chiesto ad alcuni scrittori italiani di raccontarci il loro primo giorno di scuola. Ecco la testimonianza della scrittrice Violetta Bellocchio

Il primo giorno di scuola elementare c’era una sedia vuota. Le maestre dicevano che quel nostro compagno sarebbe arrivato più avanti. Io avevo sei anni, stavo cercando il mio pezzo mancante, decisi che sarebbe stato lui. Quando il bambino arrivò, la settimana dopo, aveva i capelli rossi, le lentiggini e una maglietta con scritto Fisher-Price, e io rimasi selvaggiamente delusa. Lui? No. Non era previsto. Come non era previsto che “andare a scuola” significasse passare la giornata in un cubo di cemento con i neon al soffitto, ma di quello, a un certo punto, qualcuno si occupò, i genitori forse, e ci spostarono in una classe al primo piano, dove almeno c’erano le finestre.

Per cinque anni, la nostra classe avrebbe ospitato una rotazione di compagni che sarebbero rimasti con noi poco tempo: tre settimane, due mesi. I nomi li imparavamo, il resto no. Giocavamo insieme. La scuola era vicina a un istituto di suore – un posto dove i bambini vivevano e dormivano solo per un po’. Noi, della loro storia, sapevamo solo quello che sentivamo raccontare dagli adulti. Per cui una bambina peruviana era stata “rifiutata” dai genitori adottivi, mentre una bambina italiana era stata “tolta alla madre”. Un bambino di Milano i genitori li aveva, ma veniva preso a botte dal padre davanti al cancello della scuola, e non era mai in classe il giorno della recita di Natale – né di fine anno – anche se aveva studiato la sua parte.

Il bambino mancante aveva saltato il primo giorno di scuola perché era in vacanza. Il secondo anno di scuola elementare diventò il mio migliore amico. Ci saremmo attaccati l’uno all’altra con una precisione e una forza che mi toglie il fiato, oggi, mentre scrivo. Nemmeno quello era stato previsto.

Violetta Bellocchio

 

 

 

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