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Premio Strega 2024, il terzo gruppo di libri proposti

Ogni settimana verranno aggiornati sui canali social del Premio l’elenco delle proposte. Scopriamo il terzo gruppo di titoli indicati dagli Amici della domenica con le relative motivazioni.

Sono stati infatti resi noti il secondo gruppo di libri proposti dagli Amici della domenica al  Premio Strega 2024, il premio letterario promosso da Fondazione Maria e Goffredo Bellonci e Strega Alberti Benevento.

Il terzo gruppo di libri proposti al Premio Strega 2024

Fino al 29 febbraio, ogni settimana, verranno aggiornati sui canali social del Premio l’elenco delle proposte. Scopriamo i nuovi titoli con le relative motivazioni:

Fulvio Abbate, Lo Stemma (La nave di Teseo), proposto da Sandra Petrignani

«La passione letteraria di Fulvio Abbate è anche spesso passione civile. In questo Stemma che si presenta programmaticamente come una sorta di anti-Gattopardo, la scena è naturalmente la Sicilia, in particolare Palermo, l’epoca: i nostri giorni. Vi si muovono molti personaggi appassionanti e non solo caricaturali.

Dalla protagonista Costanza Redondo di Cosseria, principessa decisamente stupida, a varie altre figure non meno intellettualmente modeste, che credono però di essere il centro del mondo in un vivace teatro cittadino, in cui non ci vuol molto a riconoscere un’umanità non solo siciliana.

C’è Vittoria Cilona della Ferla, insostenibile dama letteraria che sta scrivendo il seguito del romanzo di Tomasi di Lampedusa; e c’è Duilio Vitanza, usciere regionale con l’hobby della divinazione; e Penny Capizzi, giovane mafiosa molto femminista; e Ruggero Barraco, pierre di eventi culturali che prova a conquistare l’appalto del Carro del Festino di santa Rosalia; e Sergio “Brando” Sucato, rappresentante di moquette rigorosamente bianche; e infine il barone Carlo Sicuro, cugino di Costanza, l’unico nell’intero racconto a essere dotato di coscienza. Basta forse la passerella di simili personaggi a rendere chiaro il centro e il senso di questo romanzo, serio e spassoso: l’illustrazione di un particolare talento, quello della mediocrità.

Dicevo dell’anti-Gattopardo, libro che tutti abbiamo amato, ma non certo per l’uso e l’abuso che ne viene fatto da certi scrittori siciliani comodamente sistemati nella sua ombra. In questo senso è interessante che il romanzo di Fulvio Abbate custodisca una (amara) riflessione sui luoghi comuni e la retorica cresciuti intorno a un topos letterario tra i più accreditati dal “turismo” letterario nazionale, quello che guarda la Sicilia – e segnatamente Palermo – come luogo narrativamente “magico”, costituendo un genere imperdibile, di sicuro impatto ben oltre le sue qualità, e che rende quindi la letteratura nient’altro che folclore.

La forza di questa critica all’interno di un’opera sapientemente costruita dal punto di vista narrativo, mi fa ritenere Lo Stemma un ottimo candidato al Premio Strega 2024.» (S.P.)

Fabienne Agliardi, Appetricchio (Fazi), proposto da Luca Doninelli

«Un libro di rara felicità narrativa e linguistica, che ha già ottenuto molti importanti consensi. Petricchio è un improbabile borgo del Sud Italia non ancora scoperto dal turismo, dove il tempo e la vita scorrono come al tempo dei trisavoli, secondo ritmi ormai sconosciuti alla più parte di noi. A Petricchio non ci sono cognomi, tutti si chiamano per nome e tutti si chiamano Rocco e l’anagrafe non è meno esotica di Tahiti.

Non ci sono vie, non vi si entra in automobile. La conoscenza del mondo a Petricchio non si sviluppa come da noi: chiunque venga dal Nord, da Cuneo come da Udine, è comunque “di Milano”, il resto è stravaganza. Petricchio però non è solo un borgo, ma un mondo, con una sua vita e mille storie, tutte diverse dalle nostre.

Le vicende del tempo presente la attraversano, come ovunque, ma una millenaria cultura, che il trionfo della società capitalista sembrava dover cancellare, continua a fare resistenza, opponendovi i propri valori e la propria lingua e continuando a generare vita. Vitale ed esilarante, antiglobalista per vocazione, Appetricchio è un godibilissimo incontro fra la nostra curiosità naturale e ciò che chiamiamo l’altro, un’ironica scoperta della Differenza, che spesso si trova non agli antipodi ma a pochi passi da casa nostra, se non in quella parte di noi che abbiamo voluto dimenticare.» (L.D.)

Giuseppe Aloe, Le cose di prima (Rubbettino), proposto da Arnaldo Colasanti

«È un romanzo feroce, pudico, intelligente, profondo. Il tema generale è la disgregazione dell’esistenza: quello specifico è lo sguardo di un bambino, oggi uomo, che ritorna in quella voragine di sofferenza in cui, tuttavia, palpita la vita. Nella lingua di Aloe tutto è emblematico: ogni passaggio stringe con forza la voce ustionata della giovinezza pensata dal tempo della maturità, dalla soglia dell’enigma. Credo, in tutta onestà, che un romanzo così (mai fatuo e sempre autentico e selvaggio) non possa mancare nell’edizione di quest’anno.» (A.C.)

Nicoletta Bianconi, Un invincibile inverno (Manni), proposto da Cesare Milanese

«Nicoletta Bianconi, nel suo romanzo Un invincibile inverno, a un certo punto cita due strofe di una poesia di Camus. Nella prima delle due strofe si dice: “Ho compreso, infine, / che nel bel mezzo dell’inverno / vi era in me / un’invincibile estate. / E che ciò mi rende felice.” Nella seconda strofa, invece, si dice: “Ho compreso, infine, / che nel bel mezzo dell’inverno / vi era in me / un invincibile inverno.”

Ecco trovato, da parte dell’autrice, il titolo e il contenuto del libro. Ciò che accade nel libro è ciò che accade alla protagonista come personaggio unico, la cui vicenda di vita complessiva può essere riassunta in pochissime parole. Quelle che bastano per dire di un’esistenza ridotta alla sua nuda proprietà. Di preciso, di lei, si sa soltanto del suo essere pervasa da un’assurda possessione d’amore rappresentata da un’immagine d’uomo, di cui non si sa bene se esista.

Ma che lei, nel suo delirio, pensa che esista, sia perché lui, nella vita di lei, ci sarebbe già stato come uomo reale, sia perché lei continua ad attendere che lui ricompaia. Il che non accadrà. Certo, la sua psicoanalista, che è una lacaniana, potrebbe ben dirle che lei, la sua paziente, è un caso esemplare di “mancanza ad essere”. Ma non le dice nemmeno questo: in realtà non le dice niente. Sta di fatto, però, che è nella sala d’attesa del suo studio che questa sua paziente reperisce un libro di Maurice Blanchot: La struttura del disastro.

Certo si tratta del “disastro” che agita lo “spazio letterario”, ma è naturale che questa paziente identifichi il disastro del discorso letterario con il disastro esistenziale. Un disastro dal quale non sembra esserci riscatto o superamento, tranne nei momenti in cui i tormenti dell’inquietudine si placano in virtù dei correlativi emotivi derivanti sia dall’ascolto di certa musica, sia dalla visione di certi film, sia dalla lettura dei libri da lei culturalmente sentiti come più suoi.» (C.M.)

Paolo Buchignani, La spilla d’oro. Memorie da un secolo sterminato (Arcadia Edizioni), proposto da Silvana Cirillo

«Paolo Buchignani, apprezzato storico contemporaneo e docente, che ha amato profondamente la letteratura e ha scritto romanzi oltreché libri scientifici, questa volta coniuga brillantemente storia e letteratura per farne un libro solo, importante e bello – è proprio il caso di dirlo – con una prosa evocatrice ed eloquente talvolta davvero “poetica”, che dovrebbero leggere soprattutto i giovani, come lezione di storia e di grande umanità, ma anche di grande capacità narrativa.

Uno splendido mosaico di ricostruzioni, documenti, acute citazioni, dialoghi, diari, lettere, riviste, eventi; un coro di voci familiari o raccontate, che si compone per darci il sentimento del tempo, cioè un tempo in cui dagli eventi trasudano e negli eventi confluiscono pensieri, sentimenti, rispecchiamenti, militanza e coscienze politiche vive.

Possiamo definirlo una sorta di Amarcord in perfetto equilibrio tra lo storico e l’autobiografico. Un avanti e indietro nel secolo passato di grande forza emotiva e completezza in una scrittura ricercata, calda e brillante, sovente poetica ed enormemente evocativa, capace di restituire appieno atmosfere e sentimenti attorno al ritornello ricorrente: “A peste fame et bello libera nos!”.» (S.C.)

Romolo Bugaro, I ragazzi di sessant’anni (Einaudi), proposto da Tiziano Scarpa

«Che cos’ha di speciale, I ragazzi di sessant’anni di Romolo Bugaro? È un libro che mette insieme le qualità migliori della tradizione romanzesca. Da un lato, la leggibilità. Dall’altro, la sperimentazione. Quest’ultima è praticata con un espediente semplice e geniale. Il protagonista è un uomo che non viene mai chiamato con nome e cognome, ma con la dicitura “i ragazzi di sessant’anni”. Di conseguenza, anche i verbi che lo riguardano sono in terza persona plurale. Così sembra che ad agire sia una categoria sociologica, una fascia d’età. E infatti, il libro comincia quasi come un saggio o un articolo di costume: descrive come si comportano in generale “i ragazzi di sessant’anni”. Ma poi il racconto si focalizza su un unico personaggio.

Questa invenzione – lo ripeto: semplice e geniale – mette alla prova il senso di ciò che chiamiamo romanzo, la sua feconda ambivalenza: stiamo leggendo una serie di casi singolari, personali, individuali? Oppure ciò che ci viene raccontato ha un valore esemplare, rappresentativo di una categoria, di una generazione, di un ceto? Ma parlavo di leggibilità e, aggiungo, di grande godibilità. Bugaro racconta, fra l’altro: le schermaglie di potere dei “ragazzi di sessant’anni” con un collega più giovane; i rapporti con i vicini ottantenni; l’incontro con gli ex compagni di scuola, dopo tanto tempo; gli sbandamenti pericolosi di una figlia quattordicenne; l’imprevedibile fiuto della moglie per gli affari.

Attorno ai ragazzi di sessant’anni prende forma una costellazione umana che restituisce il senso di una vita intera, nella fase in cui essa guarda in faccia la propria fine. Fra i romanzi che ho letto in questa annata letteraria, I ragazzi di sessant’anni è il più originale e toccante.» (T.S.)

Nevio Casadio, Le stanze dei giardini segreti (Vallecchi), proposto da Paolo Ferruzzi

«Ho letto tanti libri in questi ultimi mesi ma senza ritrovarmi in alcuno di essi. Poi ho letto un libro che mi ha fatto volare con le ali della fantasia al soffio del vento che nel vortice porta con sé cose e fogli con parole scritte. Come il vento dell’uomo dal cappello dalle larghe tese nere, come il vento di Manalive di G.K.C. Ricordate come in Manalive Innocenzo nasce? Dal vento! Da quel vento che si leva alto a occidente come un’onda d’irragionevole felicità portando con sé “il nevoso aroma delle foreste e la gelida ubriachezza del mare e che in mille buchi e cantucci ristora la gente come un boccale di vino fresco e la sorprende come una percossa”.

Da quel vento che “nelle stanze più riposte di case labirintiche e recondite, suscita come un’esplosione domestica e semina l’impiantito di fogli professorali, tanto più preziosi quanto più fuggitivi”. E risveglia drammi in esistenze senza dramma, e suona le trombe della crisi sul mondo. Da quel vento che giunge, spacca il cielo e scarica a destra e a sinistra la nuvolaglia e spalanca le grandi fornaci radiose dell’oro serotino. E il vento nelle Stanze dei giardini segreti di Nevio Casadio, irrompe come un meteorite improvviso può cadere in una Romagna a me sconosciuta, in una “Marmont” sperduta, in un mulino abbandonato come nella “Zona” tarkovskijana dove la forza dei sogni fa smuovere i bicchieri ricolmi di vino rosso alle more.

E ho letto un libro a voce alta per chi mi stava vicino e ancora di nuovo per chi lontano ascoltava senza essere veduto e che ne voleva risentire brani perduti del “bacio dell’innocenza”, l’eco nella “stanza del cimitero dei nomi abbandonati” e il soffiare “su quelle lettere scomposte e disegnate nell’aria, come per dire che tutto vola via e che sotto quelle lettere non c’era niente, fumo e basta”. E ho letto un libro e mi sono sentito, in un’isola felice sul mare, in un mulino quale custode “dei resti di gente sfiorita” e di “luoghi dove incontrare sé stessi lungo il filo dei sogni”.

E ho letto un libro dove si anagramma la realtà per raccontare, in una stanza vuota, la storia ancora più vera del “saliorgezivo” evocato nella struggente amicizia neppure intaccata “dall’invidia della terza sigaretta accesa”. E ho letto un libro che idealmente colloco tra le cose care nella “stanza degli amici” perché mi possa aiutare a trasformare la bruttura in bellezza, l’inutile in fantastico, il bistrattato in meraviglia, perché Le stanze dei giardini segreti è poesia e fantasia, è tutto ciò che aiuta per essere “l’autore dei propri sogni”.» (P.F.)

Giulio Cavalli, I mangiafemmine (Fandango Libri), proposto da Lisa Ginzburg

«Con I mangiafemmine, Giulio Cavalli costruisce una lucidissima distopia che non ha nulla di distopico. Si addentra nell’abominio dei femminicidi tratteggiando personaggi maschili dalla bieca e cieca natura, e lo fa in modo impietosamente verosimile, così come immagina e restituisce donne i cui disgraziati destini risultano anch’essi assolutamente contigui alla realtà. Il risultato è un romanzo che è attuale a ogni pagina, ma la cui forza letteraria in nulla disobbedisce alle ferree regole della trasposizione e dell’invenzione.

Un libro che si legge d’un fiato, con totale coinvolgimento per come affonda nel nervo del possibile, eppure sentendosi costantemente nutriti dalla cruda pienezza della fantasia. Dialoghi, frangenti, intrecci: tutto è terso e stringente come solo accade quando lo sguardo di uno scrittore sa essere chirurgico per come nitido e coraggioso, quasi una lama quando affronta quel che sta per tagliare senza in nulla arretrare davanti alla precisione del suo proprio gesto.

Il mondo di DF, luogo/spazio immaginario il cui acronimo condensa nel suo enigma distopia e denuncia, è specchio convesso che riflette senza deformare una troppo vasta porzione del mondo in cui viviamo. E come succede nella letteratura quando è tale, riprovazione, scandalo, angoscia, paura, dolore, ogni moto d’animo suscitato nel lettore genera a propria volta un processo di associazione con la vita vera che indirettamente rafforza lo spessore dell’immaginazione narrativa.

Un libro che parla di esistenza e di pulsioni di morte, di violenza di genere, di frustrazione e di soprusi, di abissi morali e di rapporti di forza. Una vicenda densa di voci maledettamente azzittite ma su cui, stendendosi come una scia, rimbomba sonora l’eco che quelle stesse vittime lasciano nell’aria, grido acuto di allarme, anatema. Per lo stile preciso e la struttura compatta, per come reinventando la realtà in senso antropologico e politico sa narrarla dal di dentro, per come incuneandosi nel buio riesce a sviscerare di quel buio ogni singola ombra, I mangiafemmine è un romanzo importante, che con convinzione mi sento di presentare al premio e agli Amici della domenica.» (L.G.)

Costanza DiQuattro, L’ira di Dio (Baldini+Castoldi), proposto da Roberto Barbolini

«Una forza tellurica, possente, serpeggia tra le pagine di questo intenso libro di Costanza DiQuattro, che fin dal titolo L’ira di Dio, col suo richiamo alla collera celeste, evoca la catastrofe verso la quale la trama inesorabilmente precipita: il terribile terremoto che colpì Ibla e il Val di Noto l’11 gennaio del 1693. Consideriamo la città in cui la storia è ambientata: come la Casa degli Usher di Poe, fin dalle prime righe essa si rivela una sorta di espansione psichica dei suoi abitanti: «Ibla, sciupata e stanca, di notte ricordava il lamento flebile di una prefica piangente che all’alba si trasformava nel vociare di una donnaccia spudorata». Già al centro di romanzi precedenti come Arrocco siciliano e Giuditta e il Monsù, Ibla è parola magica nella geografia interiore dell’autrice.

Non importa affatto che coincida con un toponimo realmente esistente, perché è il luogo dove abita lo spirito di Costanza DiQuattro, la città che vive dentro di lei. E il realissimo evento storico del sisma disastroso che la distrusse, attorno al quale la ricca trama ruota come una trottola attorno al suo perno, segna anche il picco climaterico di una prodigiosa rinascita umana e sociale, ancor prima che urbanistica, che fa il paio con quella psichica del protagonista padre Bernardo: un aristocratico fattosi frate senza vocazione, diviso fra il senso del dovere e la brama amorosa.

Nel disastro Bernardo ha perso la dolce Tresina, la perpetua con cui non senza rimorsi “viveva nel peccato”, e il loro figlioletto poco più che neonato. Ma proprio al fondo della catastrofe troverà la forza per reagire, così come dalle rovine nascerà la meraviglia tardobarocca del Val di Noto. Fervida di passione per il mondo atavico che descrive, ma ben calibrata nel dosarne la rappresentazione, DiQuattro ci consegna una prova di alta maturità stilistica, grazie a una scrittura che padroneggia perfettamente registri alti e sapide incursioni dialettali, capace di dar voce a figure memorabili mentre disegna con rigore appassionato il quadro storico e umano entro cui queste si muovono.» (R.B.)

Olga Gambari, Il nome segreto (Miraggi Edizioni), proposto da Carlo D’Amicis

«Quante persone contiene la parola io? In un tempo nel quale sembra prevalere, a volte anche in letteratura, il radicalismo identitario, Olga Gambari sceglie di raccontare la molteplicità e l’inafferrabilità dell’animo umano attraverso la storia di Eva, una storia che è molte storie, una donna che è molte donne, in fuga da sé stessa e nello stesso tempo alla ricerca di sé stessa. La sua esistenza, legata a filo doppio alla scomparsa di una sorella più piccola, annegata quando Eva ha dodici anni, si reinventa in una galleria di donne (ma anche l’identità di genere, in questa reinvenzione, diventa evanescenza) in continuo movimento, e con nomi diversi, tra alcune città europee, da Barcellona a Parigi, da Berlino a Palermo.

Ecco, appunto, i nomi. L’esperienza quotidiana del nominare le persone e le cose si trasforma nel libro di Olga Gambari in una coraggiosa immersione nel rapporto tra la parola e il silenzio (“doloroso è raccontare”, dice il Prometeo di Eschilo, “ma doloroso è anche tacere”), affidando al mutismo ostinato dei genitori di Eva la rappresentazione del potere devastante del rimosso nelle nostre vite.

Attraverso il viaggio di Eva, in realtà, questo romanzo scardina il dualismo tra silenzio e verbalizzazione e si apre a una terza possibilità di relazione col mondo (e con la propria sofferenza) – una possibilità che forse discende direttamente dalla formazione dell’autrice (Olga Gambari è critica e storica dell’arte), e che potremmo semplicemente definire l’esperienza naturale del sentire.

A schiudere le porte di questa esperienza, Gambari introduce nel romanzo, in contrapposizione ma anche a complemento di quella di Eva, il personaggio di Lupo, giovane folgorato in tenera età dalle fantasmagorie del circo e figura emblematica dello stupore infantile con cui, ancora oggi, si può guardare la realtà: accogliendo come bellezza, e non come occasione di conflitto, ogni forma di diversità.

Mettendo in azione una scrittura ritmica ed elegante, Olga Gambari scrive un libro denso di significati profondi, limpido ed enigmatico allo stesso tempo, e per questo lo ritengo meritevole di essere tra i candidati alla prossima edizione del Premio Strega.» (C.D.A.)

Fabio Genovesi, Oro puro (Mondadori), proposto da Concita De Gregorio

«Oro Puro è un grande romanzo di mare. Di viaggio e di mare, per mare: non ne sovvengono alla mente molti nella letteratura italiana del Novecento, come se gli scrittori della penisola avessero voltato le spalle all’acqua che tutto circonda se non immergervisi di tanto in tanto per diletto, talvolta con spavento, o per meditare l’orizzonte dalla riva.

Come se il mare fosse del Paese un magnifico e temibile accessorio, tutt’al più luogo di fatica, di lavoro e di disgrazia. Rare le eccezioni, sovente poco note. Fabio Genovesi, nato e cresciuto in Versilia dove vive, racconta la più celebre traversata della storia con gli occhi e la voce di Nuno, mozzo sedicenne. Nei diari di Cristoforo Colombo si legge che al momento del naufragio della Santa Maria, la notte di Natale, al timone c’era un giovane inesperto. “Mezza riga, niente di più. Ci ho messo quindici anni per trasformare quella mezza riga in un romanzo. Come si chiamava, chi era, cosa faceva lì?”.

L’errore che avrebbe cambiato la rotta della storia moderna, dunque la forza dell’errore. L’impotenza degli uomini superbi, convinti di scrivere il proprio e l’altrui destino. La fatalità, invece. Quel che accade per caso o per sbaglio e che da quel momento in avanti ci definisce, ci colloca e ci nomina. Neppure Colombo, lo sappiamo bene, sapeva dove fosse arrivato. Figuriamoci il mozzo. E invece è proprio il ragazzo a definire il senso di questa grande storia corale e collettiva.

È lui, la sua vita piena di tutto quello che manca, le sue origini, sua madre, le sue paure (del mare, di nuovo: spaventoso), le occasioni che si offrono impreviste e da ultimo la più grande di tutte: il mozzo sa scrivere, conosce il dono di tramandare le parole, di costruire la memoria. In virtù di questo, la più grande delle doti, l’Ammiraglio lo terrà accanto a sé per tutto il viaggio.

È Nuno, no uno, nessuno il testimone inconsapevole. Intorno a lui il mondo che si definisce fra destini comuni, fra persone casualmente chiamate a trascorrere insieme un tempo lunghissimo, chiuse in uno spazio angusto e dirette verso una sorte ignota. Perciò una geografia degli animi umani, una mappa. Non è un eroe coraggioso, il mozzo. Qui nessuno lo è, del Comandante si sospetta persino e si sussurra sia folle. Sono tutti piccoli, questi uomini nel guscio di legno, minuscoli al cospetto del mare di ogni cosa imperatore. Sono nelle mani di un destino che non sanno, e compiono l’impresa.» (C.D.G.)

Laura Magni, Storia swing intorno a Fernandez (Morellini), proposto da Vito Bruschini

«Gli ultimi fasti della Belle Époque danno inizio a questa storia popolata da personaggi che sembrano usciti da un film scritto da Scott Fitzgerald: eleganza, glamour, pettegolezzi, lady in cerca di vanità, coppie con in tasca il biglietto per il viaggio inaugurale del Titanic, gente che intreccerà le proprie multiformi vite con persone di umili origini, e che nel volgere di due o tre generazioni vagando negli intricati labirinti della vita, in fuga verso un destino che offrirà loro innamoramenti, dolore, invidie, folli passioni, gelosie, fonderanno tra loro le proprie esistenze dando vita a una nuova società.

Originalissima nella struttura narrativa, che si sviluppa tra la Costa Azzurra, Marsiglia e l’Andalusia, la storia gira vorticosamente tra le esistenze di cinque donne e il Fernandez del titolo, il giovane farmacista che quasi inconsapevolmente diventa il centro focale delle loro vicende che un bizzarro destino e una serie di coincidenze finirà per legare l’un l’altro in un unico corpo pulsante di vitalità e di desiderio, d’amore e di odio, di gelosie e di passioni sfrenate, sorprendendoci con una serie di colpi di scena, così da creare un vero e proprio affresco di emozioni che rendono questo romanzo un gioiello narrativo.

Memorabile e straordinariamente originale è il piano sequenza finale dove rivediamo tutta la compagnia dei personaggi sfilare in un’impareggiabile descrizione che ricorda il finale del film Otto e mezzo di Federico Fellini. È un libro dove il “romanzo” riscopre la propria purezza, e che per questo ci farà riconciliare con la letteratura. La scrittura di Laura Magni è lieve, ma ricercata nello stesso tempo. Ogni parola ogni aggettivo sono scelti con cura meticolosa. E le informazioni del periodo storico sono così minuziose che lasciano intendere una mole di lavoro di ricerca non usuale ai nostri giorni. È un’avventura narrativa di straordinaria passione e originalità, un vero e proprio tesoro letterario che arricchisce il panorama culturale contemporaneo.» (V.B.)

Francesco Maino, I morticani (Italo Svevo), proposto da Maria Teresa Carbone

«Dieci anni dopo l’uscita di Cartongesso (di certo uno degli esordi italiani più importanti di questo primo quarto di secolo), Francesco Maino ha pubblicato I morticani. Si sa quanto possa essere difficile passare al secondo romanzo, in particolare quando il primo ha trovato un buon numero di lettori ed è diventato presso i critici “un piccolo oggetto di culto” (definizione fastidiosa, ma in questo caso corretta). Ebbene, I morticani è bellissimo. In primo luogo, c’è una lingua di vertiginosa, manganelliana ricchezza – una lingua, come accade nei grandi romanzi, capace di costruire un mondo, quel Veenetken dove si parla “un cattivo veneto che potrei veramente chiamare immorale, appunto perché privo di tradizione” (così Pier Paolo Pasolini, citato da Maino).

Ma sbaglierebbe chi vedesse nei Morticani un romanzo a chiave, circoscritto alle contrade “tra la Piaga e la Lienza” e ai loro dintorni. Appoggiandosi al mito e felicemente tradendolo, Maino descrive con toni farseschi, ironici, disperati, “la monorotaia del destino” che tutti percorriamo e dà voce a quel “fraseggio della fragilità” a cui è pressoché impossibile sottrarsi.» (M.T.C.)

Annarosa Mattei, La regina che amava la libertà. Storia di Cristina di Svezia dal Nord Europa alla Roma barocca (Salani), proposto da Mirella Serri

«“Era nato caratterizzato da una voce forte e squillante”: ma poi come scriverà Cristina Augusta di Svezia nella sua autobiografia “un grande imbarazzo prese le donne quando scoprirono di sbagliarsi”. La levatrice e le sue assistenti si accorsero di essere incappate in un errore: il presunto neonato era una neonata.

Era una bambina che, divenuta adulta, con quella “voce forte” che l’aveva connotata fin da piccolissima, con il suo carattere deciso, forte e ostinato, fece di tutto per far tremare palazzi reali, dimore pontificie, mise in crisi Stati e corti regali e dedicò tutta la sua esistenza per violare i dettami, le regole e le costrizioni dell’epoca in cui visse. Il racconto di Annarosa Mattei La regina che amava la libertà. Storia di Cristina di Svezia dal Nord Europa alla Roma barocca (Salani) è dedicato alla vita della regina che, nata a Stoccolma nel 1626 (e morta a Roma nel 1689), approdò al trono a soli sei anni.

Fu nominata a questo gravoso incarico dopo la prematura scomparsa del padre, il re Gustavo II Adolfo di Svezia. E il libro di Mattei si sviluppa come un racconto articolato e complesso, pieno di sorprese e di inaspettati risvolti al pari dell’esistenza della sua protagonista.

Scritta con stile lieve ed elegante l’opera di Mattei è soprattutto un inno alla libertà femminile. Ed è anche l’esaltazione di una grandissima intellettuale.

Il libro sfugge a tutti i canoni della classificazione più tradizionale: non è un romanzo storico ma è comunque un romanzo che interpreta la complessa e sfuggente personalità di Cristina, la quale amò gli uomini ma anche le donne, che fu educata nell’ossequio della religione protestante ma si convertì al cattolicesimo, che era molto legata al suo ruolo di regina ma che abdicò nel 1654. E che soprattutto fu una donna di importanti letture stimata dal suo maestro Cartesio e dall’architetto Gian Lorenzo Bernini.

Il racconto di Annarosa Mattei non è nemmeno un saggio ma rispetta tutti gli obblighi della non fiction, non vi sono vicende o percorsi inventati ed è tutto rigorosamente documentato. Arrivata a Roma in fuga dalla Svezia Cristina si occupò di opere caritatevoli, di arte, musica e teatro. Addirittura diede impulso all’importante movimento culturale che, dopo la sua morte, portò alla fondazione dell’Accademia dell’Arcadia nel 1690. La forza di Mattei è nella sua voce narrativa la quale dà vita a un libro che è anche un grande affresco della Roma seicentesca.» (M.S.)

Christian Raimo e Alessandro Coltré, Willy. Una storia di ragazzi. Il delitto di Colleferro: inchiesta su un massacro (Rizzoli), proposto da Martina Testa

«Visto che da anni, o in fondo da sempre, il Premio Strega non è un premio riservato a chi scrive fiction, storie di invenzione, ma si va aprendo sempre più anche alla pura narrazione del reale, segnalo con piacere all’attenzione del Comitato direttivo Willy. Una storia di ragazzi.

Christian Raimo non si è inventato nulla di questa storia, ma si è inventato un modo per raccontarla. Di fronte a un episodio agghiacciante quanto tragicamente comune, dei giovani maschi che ne uccidono un altro in una rissa, Raimo sceglie di tenersi all’esterno del fascio di luce che i riflettori mediatici gettano sui colpevoli e sulla vittima, e da ogni potenziale morbosità che questo punto di vista porta con sé. Il suo racconto si muove piuttosto in cerchi concentrici verso l’esterno, illuminando via via gli altri protagonisti della vicenda e l’intera comunità locale, partendo dai tavolini di un bar per estendersi a tutto il piccolo centro di provincia, i comuni limitrofi, la storia di quei luoghi, lo sviluppo di un intero Paese.

È un racconto a più voci, plurale: a partire dal frequente “noi” in cui a Raimo si affianca un prezioso collaboratore, il giornalista e attivista Alessandro Coltré, per estendersi alle testimonianze e alle riflessioni di decine di altre persone; un’indagine che non arriva né vuole arrivare a una “nuova verità” sul caso di cronaca, ma che è avvincente, generosa, caparbia nel suo sforzo inesausto di rivelare un contesto: il contesto, concetto raro e prezioso nell’epoca dell’eterno presente, dell’eterno primo piano, dell’eterno autodefinirsi.

Una sconfinata curiosità accompagnata dalla passione civile, una fiducia insopprimibile nella possibilità di indagare il mondo per capirlo e per cambiarlo animano da decenni la scrittura di Christian Raimo, e Willy. Una storia di ragazzi ne è un esempio quintessenziale: oggetto letterario e gesto politico, indagine conoscitiva e atto di fede.» (M.T.)

Luca Ricci, Gotico rosa (La nave di Teseo), proposto da Massimo Onofri

«Quasi all’inizio della sua vicenda, nel 2006, Luca Ricci aveva pubblicato un libro dal titolo eloquente: L’amore e altre forme d’odio. C’era stata poi, insieme a molto altro, la quadrilogia delle stagioni, conclusasi l’anno scorso con I primaverili. Arriva ora a riprendere il discorso, con vocazione fenomenologica e dentro una popolata galleria di ritratti, Gotico rosa, pubblicato da La nave di Teseo.

Quella del racconto è di sicuro un’arte in cui l’Italia primeggia e dentro questa tradizione oggi Ricci eccelle: per la notevole disposizione a inventare trame, per la drammaturgia del personaggio, per la felicità e facilità dei dialoghi, per la singolarità del punto di vista, per la limpidezza della scrittura, ma, soprattutto, per la capacità di contrarre nel breve d’un racconto un destino. Uno dei racconti reca in epigrafe una massima di Cioran: “I sentimenti sinceri presuppongono una mancanza di riguardo verso di sé”. Si tratta d’una verità ambivalente e forse ambigua dentro cui folgorano i frammenti dell’ininterrotto discorso d’un originale anatomopatologo dell’amore.» (M.O.)

Marco Rossari, L’ombra del vulcano (Einaudi), proposto da Claudia Durastanti

«È raro imbattersi in romanzi dotati di un forte desiderio formale, o in libri innamorati di altri libri (in questo caso si tratta di Malcolm Lowry tradotto dallo stesso Rossari) che siano capaci di uscire illesi dalla competizione con quello che la letteratura ha rappresentato nella propria vita. L’ombra del vulcano è uno di questi romanzi, in cui la dedizione alla scrittura e al senso della parola viene corretta e sfidata da un altro tipo di amore, più carnale e privato, intimo e levigato dal tempo, proprio nel momento in cui si avvicina alla dissoluzione.

È la storia di una vertigine sentimentale, con una lingua calda ma molto precisa, capace di seguire il mondo in cui l’inizio si sviscera nella fine. La meticolosità del ricordo nel descrivere il legame con una persona amata mi ha ricordato l’ossessione analitica di Annie Ernaux in Perdersi, ma l’amore è solo un pretesto, o forse è tutto, mentre ribolle sotto un’inquietudine che porta altrove.» (C.D.)

Piero Trellini, R4. Da Billancourt a Via Caetani (Mondadori), proposto da Francesco Caringella

«Con grande gioia e profonda convinzione propongo R4. Da Billancourt a Via Caetani di Piero Trellini. Lo faccio perché, come le autentiche opere di narrativa, non è un libro, ma più libri insieme, annodati dal muso ammiccante e accogliente dell’auto più venduta di Francia. È un libro sulla storia della Francia, dell’Italia, dell’Europa, sulle due guerre mondiali, sulle dinastie industriali e sulle lotte operaie, una storia che si racconta attraverso altre storie in un gioco di specchi che coinvolge e avvolge una galleria incredibilmente vasta di mondi e di epoche. È un libro di uomini e di donne, di aspirazioni e di respiri, di sogni e di destini, di suicidi e di avventure, di capitomboli e di resurrezioni.

È un libro che racconta, con la lucidità di una cinepresa, i giorni terribili del sequestro Moro, scolpiti nell’atmosfera dura e fredda degli anni di Piombo. È un libro che incarna alla perfezione la lezione kafkiana secondo cui un vero romanzo è un colpo di piccozza che rompe il mare di ghiaccio che è dentro di noi.» (F.C.)

Dario Voltolini, Invernale (La nave di Teseo), proposto da Sandro Veronesi

«Ci sono libri così belli da sbalordire. Cos’hanno in più degli altri? Magari l’autore ha già scritto altri libri molto belli, è una figura nota, apprezzata, i suoi punti di forza sono ben conosciuti e la qualità della sua scrittura non dovrebbe sorprendere nessuno: eppure in quei libri lo fa, sorprende, sbalordisce. Perché? Perché tutt’a un tratto sembra che quell’autore sia nato per scrivere quel determinato libro, e che tutti gli altri che ha scritto prima non siano stati altro che un passo per arrivare a scriverlo? Io non so rispondere a queste domande, ma so che ogni volta che apro un libro, ogni santa volta, in cuor mio spero che si tratti di uno di quei libri, così da ritrovarmi ancora una volta sbalordito per la bellezza e confuso in questo mistero.

Invernale di Dario Voltolini è uno di quei libri.

La bravura di Voltolini è nota. La luminosità della sua scrittura è nota. La genialità del suo modo di raccontare il mondo è nota. Eppure nessuno dei suoi libri precedenti mi aveva sbalordito come questo – ed è per condividere il mio sbalordimento che ho deciso di presentarlo per l’edizione 2024 del Premio Strega.

È un libro che parla di nostro padre, sapete. Del nostro padre macellaio che esce dalla cella frigorifera con la bestia sulla spalla, che le mozza la testa col coltellaccio e che grida solo per un istante sopra al vocio della gente quando per sbaglio si stacca un dito con un fendente. Ricordate? Parla del padre di noi tutti, invincibile, invulnerabile, che lavora senza sosta mentre noi studiamo; del nostro padre generoso che regala la carne agli zingari; del nostro padre immortale che si ammala e muore, d’estate, ancora giovane, lasciandosi dietro un tempo supplementare lungo ormai più di quarant’anni nel quale continua a sfrecciare nei nostri sogni al volante della sua Lancia. Parla di Gino, questo romanzo bellissimo, di nostro padre Gino Voltolini.» (S.V.)

Paolo Zardi, La meccanica dei corpi (Neo Edizioni), proposto da Marco Zapparoli

«Grazie a una scrittura lucida e priva di fronzoli, a una scelta meticolosa di dettagli, frangenti, immagini, Paolo Zardi riesce nella cosa più difficile e insieme centrale della Letteratura: aprire squarci straordinari nell’ordinario, rendere plausibile l’implausibile, rendere presenti i lettori a fatti, pensieri, personaggi. Non è scontato vedersi di fronte Maria – grazie a un astuto artificio – nei primi istanti in cui comprende di trovarsi “in attesa”, la più cruciale e discussa della Storia, quella di Cristo.

Non è facile credere che una giornalista in crisi riesca a metter finalmente sotto i rivali, nell’agenzia per cui lavora, scatenando con i propri pezzi – ah, il demone della visibilità, dei like! – un’intera cittadina contro un mostro inesistente. E che dire di un anziano che, avvolto da un coro di fantasmi emanazione degli affetti del passato, riesce a ricongiungersi – grazie a un lungo viaggio, spinto da una delirante quanto lucida visione – con il figlio svanito nel nulla anni e anni prima? I racconti di Paolo Zardi meritano di esser letti da un pubblico ampio e delle più diverse età: propongo quindi La meccanica dei corpi con gioia – ciò che ho provato leggendolo – e convinzione.» (M.Z.)

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