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Perché Giovanni Boccaccio è stato il primo sostenitore di Dante

Lo scrittore Dario Pisano ci introduce a quello che sarà l'anno dantesco raccontandoci la stima e l'ammirazione che Giovanni Boccaccio aveva per Dante Alighieri

Possiamo considerare Giovanni Boccaccio il primo Professore di Dantologia della storia. Il primo tempestivo pontefice del culto Dantesco. L’autore della Commedia – da lui definita divina – è stato l’astro più luminoso e brillante del suo firmamento letterario e poetico.
Lo scrittore di Certaldo ha sempre coltivato interessi danteschi, sin da quando era ragazzo e – a Napoli – scriveva pometti in terza rima, come la Caccia di Diana ( il suo esordio poetico pubblicato nel 1334 ). Naturalmente, l’adozione della terza rima implica il riconoscimento del patronato letterario dantesco. Ancora nel XX secolo, un fine lettore di Dante come Pier Paolo Pasolini, riproporrà questo metro ( basta che pensiate ai poemetti delle Ceneri di Gramsci ).

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Il Decameron

Nel suo opus magum – il Decameron – l’autore – interessato a registrare e raccontare la varietà del mondo e degli uomini – eredita il multistilismo dantesco e impasta tra di loro ingredienti narrativi e stilistici eterogenei. Ma basterebbe limitarsi a un dato macroevidente. Il libro si compone di 100 novelle, tante quante i canti della Commedia, poema che narra un viaggio intrapreso dall’autore a 35 anni, la stessa età che aveva Boccaccio all’altezza del 1348, annus horribilis nel quale è ambientata la storia ( ricorderete la lieta brigata che fugge da quel theatrum mortis che è la città appestata verso un locus amoenus dove rifondare – attraverso la Letteratura – l’humanitas ). Aggiungo che la prosa decameroniana è disseminata di citazioni e stilemi danteschi, a testimonianza di un colloquio profondo e protratto fino alla fine.
Quindi l’imitatio Dantis è la più importante coordinata retorica che orienta Boccaccio nella sua scrittura letteraria.

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Il primo biografo di Dante

Boccaccio è stato anche il primo biografo dell’Alighieri. Ha scritto Il Trattatello in laude di Dante. Questa biografia apriva una collezione di opere dantesche allestite di suo pugno ( Questi per tre volte copiò i 14.233 versi del poema nei codici Toledano, Riccardiano e Chigiano ).
Solo un accenno rapido al modo in cui Boccaccio impaginò le cantiche dantesche: egli si staccò dalla tradizione manoscritta toscana e optò per una impaginazione monocolonnare ( e non più bicolonnare ). Questa mise en page era fino a quel momento riservata ai soli classici latini ( i grandi autori come Virgilio e Orazio ). Egli in questo modo diginificò Dante e la traditio letteraria volgare

La Vita Dantis – alla maniera di un vero e proprio accessus ad Dantem – introduceva il lettore all’interno dell’opera dantesca. Noi a torto lo consideriamo un’opera minore ( minore forse rispetto al Decameron, ma è un paragone ingeneroso ); pensate che Ugo Foscolo – letterato autorevolissimo – lo reputava il suo capolavoro, « l’opera boccacciana più luminosa di stili e pensieri» .
Boccaccio non ha mai conosciuto l’Alighieri. Per scrivere questa biografia ha raccolto le testimonianze di chi lo aveva frequentato. E’ stato nei luoghi del poema e nelle città che avevano ospitato l’exul immeritus.
In questo modo, l’ingente materiale accumulato gli permette di disegnare un ritratto del poeta, sia fisico sia morale, comportamentale.

Il volto di Dante

Come era fisicamente Dante? Qual era il suo volto? ( Il volto è la geografia dell’ anima; nei nostri lineamenti si inscrive il rapporto che abbiamo con la vita ). Ecco la descriptio Dantis boccacciana:
Fu […] questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo andare grave e mansueto, d’onestissimi panni sempre vestito in quell’abito che era alla sua maturità convenevole. Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso.
Questo passo suggestionerà Ugo Foscolo, il quale se ne ricorderà quando – nei Sepolcri – descriverà Vittorio Alfieri.

E a questi marmi
venne spesso Vittorio ad ispirarsi,
irato a’ patrii Numi; errava muto
ove Arno è più deserto, i campi e il cielo
desîoso mirando; e poi che nullo
vivente aspetto gli molcea la cura,
qui posava l’austero; e avea sul volto
il pallor della morte e la speranza.

Subito dopo questa descrizione, Boccaccio inserisce un aneddoto che testimonia la precocissima fortuna dei versi danteschi: mentre il poeta camminava solitario, alcune donne – sedute fuori dalla porta – incominciarono a guardarlo intensamente e una disse alle altre:

«Donne, vedete colui che va nell’inferno, e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che là giù sono?» L’amica risponde: «In verità tu dèi dir vero: non vedi tu com’egli ha la barba crespa e il color bruno per lo caldo e per lo fummo che è là giù?».

Secondo la creduloneria popolare, se Dante era così scuro di carnagione era perché aveva trascorso troppo tempo a contatto con la fuliggine infernale!

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Le opere del Sommo poeta

A parte questi divertentissimi aneddoti, l’aspetto più interessante del Trattatello per i moderni biografi del sommo poeta è da ricercare nelle informazioni relative alle sue opere, informazioni più o meno accoglibili, intorno alle quali gli studiosi ancora discutono alacremente.
Il solerte biografo ci informa che il poeta avrebbe scritto i primi sette canti dell’Inferno quando era ancora a Firenze. L’esilio lo costrinse a mettere da parte, ad archiviare il poema incipiente. Gli amici di Dante fortunosamente ritrovarono queste carte contenenti i primi sette canti all’interno di un forziere e le spedirono al poeta che si trovava in esilio in Lunigiana, in modo da consentirgli di inoltrarsi nella scrittura del poema.
L’incipit dell VIII canto dell’Inferno contiene un gerundio che probabilmente è una spia lessicale che avvalora la tesi boccacciana: «Io dico, seguitando, che assai prima». Sembra che l’autore riprenda a raccontare dopo una pausa…

"E quindi uscimmo a riveder le stelle", i versi di Dante e la speranza di oggi

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Lo scrittore Dario Pisano analizza il significato dei celebri versi della Divina Commedia «e quindi uscimmo a riveder le stelle», oggi molto attuali

Altre curiosità che emergono in queste pagine sono la svalutazione della componente politica della personalità dantesca, intesa come impropria per il vero sapiente e le tirate antimatrimoniali: Dante – secondo Boccaccio – avrebbe fatto male a prender moglie dato che queste sono un fastidioso disturbo e impediscono agli uomini di concentrarsi negli studi.

L’altra costante tematica è la veemente e sempre risorgente accusa a Firenze, un violento anatema scagliato contro la città rea di avere esiliato Dante, colpa imperdonabile. Si crea così una polarità oppositiva: da una parte Firenze matrigna e dall’altra Ravenna, mamma adottiva e benevola dove il poeta trascorre gli ultimi anni.

La difesa del volgare

Un tema culturalmente importantissimo che si affaccia in queste pagine è l’appassionata difesa che Boccaccio compie della decisione dantesca di utilizzare il volgare al posto del latino per il suo poema. I classicisti emunctae naris, gli umanisti della prima ora, censurarono Dante per questa sua scelta: un’opera di scienza non poteva essere scritta in volgare. Boccaccio lo difende a spada tratta:
Egli scelse il volgare «per fare utilità più comune a’ suoi cittadini e agli altri Italiani: conoscendo che, se metricamente in latino, come gli altri poeti passati, avesse scritto, solamente a’ letterati avrebbe fatto utile; scrivendo in volgare fece opera mai più non fatta, e non tolse il non potere esser inteso da’ letterati, e mostrando la bellezza del nostro idioma e la sua eccellente arte in quello, e diletto e intendimento di sé diede agl’idioti, abbandonati per addietro da ciascheduno.»
Dante poté in questo modo allargare il pubblico dei suoi lettori; permise a moltissime persone, illetterate, di accostarsi proficuamente alla sua opera.

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La divulgazione della poesia dantesca

Qui tocchiamo uno degli aspetti più cordiali e intelligenti della personalità boccacciana: il suo amore per la divulgazione della poesia dantesca, che si concretizzerà nelle lecturae che – durante gli ultimi anni della sua vita – tenne nella Badia fiorentina, nell’attuale Cappella Pandolfini, dove all’epoca sorgeva la chiesa di S. Stefano Protomartire. I fiorentini chiesero a gran voce un professore di Dantologia e il comune affidò l’incarico a Boccaccio, il quale avrebbe dovuto leggere tutti e cento i canti ma si fermo – per motivi di salute – al canto XVII dell’ Inferno.
Queste letture ebbero un successo straordinario e inaugurarono un genere, una tradizione che dura ancora oggi ( basti pensare alle letture di Benigni in piazza Santa Croce ).

Dante “stella polare” di Boccaccio

In conclusione: Dante è stata la stella polare di Giovanni Boccaccio. Lo ha orientato nella sua navigatio letteraria. E Boccaccio – durante la sua vita – ha trasmesso a tantissime persone l’amore verso la sua Divina Commedia, definita da Eugenio Montale «l’ultimo miracolo della poesia mondiale». Boccaccio ha trasmesso agli uomini il virus dantesco; un virus benefico però…

C’è solo una persona che Boccaccio non è riuscita a contaminare, a contagiare. Una persona che non si è mai convertita al culto di Dante nonostante le affettuose sollecitazioni boccacciane. Si tratta di un suo amico carissimo, l’ amico del cuore: Francesco Petrarca. Ma questa è un’altra storia…

Dario Pisano

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