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“Mi chiamo Lucy Barton” di Elisabeth Strout: un romanzo sull’intensità della relazione fra madre e figlia

Mi chiamo Lucy Barton” è un romanzo di Elisabeth Strout, vincitrice del premio Pulitzer con “Oliver Kitteridge”, edito da Einaudi nel 2016.

C’è uno studio medico da cui ci si reca per non assomigliare alla propria madre: ci si cura per avere lineamenti diversi, comportamenti diversi, risultati diversi. Non si tratta di interventi di chirurgia plastica e non ci si affida al bisturi delicato di un chirurgo: ci si offre alle forbici sicure di un ostetrico, impietoso nella recisione del cordone ombelicale.

Ogni donna, più che ogni uomo, ha un rapporto intenso e talvolta conflittuale con colei che la ha generata poiché solo uccidendo metaforicamente la madre, e partorendola come frutto del proprio ventre di adulta, ciascuna può accettare se stessa come erede e custode di un tesoro femminile.

Tale relazione, oggetto di numerosi romanzi e saggi, anche di recente pubblicazione, viene riproposta da Elisabeth Strout la quale, dopo il successo di “Amy e Isabel”, riporta sulla scena di carta le dinamiche familiari, sottese fra alcune parole dette e troppe taciute, che si originano fra donne.

Mi chiamo Lucy Barton”, edito da Einaudi nel 2016, ultima opera della suddetta scrittrice sul tema qui trattato, è, infatti, un romanzo breve e di grande valore, in cui ogni lemma pesa e scava, fino a lasciare il segno.

Trasportate dalla corrente di un flusso di coscienza e di memoria, le due protagoniste, rispettivamente madre e figlia, quest’ultima a propria volta madre di due bambine, si relazionano come donne in un rapporto paritario, fondato sulla comprensione reciproca e sull’amore viscerale.

L’elemento che diventa collante e filo rosso di sangue, forte quanto la linfa che alimenta le radici robuste dell’albero delle generazioni, è il racconto: per cinque giorni e cinque notti, davanti al capezzale di Lucy, ricoverata per nove settimane in ospedale per complicanze a seguito di un’operazione di appendicite, un anello di parole diventa eredità preziosa.

Le storie riportate dalla madre, quali mini racconti che costellano il romanzo, sono teatro neutro nel quale le due donne, celate dal pettegolezzo, possono ricordare e ricostruire la propria storia, liberando il fantasma di un’infanzia dolorosa.

Sullo sfondo del grattacielo Chrysler, uno dei simboli di Manhattan che diventa qui emblema dell’ascesa sociale dalla miseria e dall’ignoranza, verso un progresso e un’autoaffermazione da raggiungere macinando scale di ferro, assistiamo ad un muto e, paradossalmente, eloquente scambio d’amore basato su gesti intimi, quali carezze furtive.

La proclamazione del proprio nome, Lucy Barton, quale primo segno di appartenenza ad un contesto familiare che lo ha scelto e imposto, è un atto di perdono: accantonata la rabbia e cullati i soli bei ricordi, la protagonista guarisce non solo nell’intestino, ma anche nell’anima, accettando di assomigliare alla propria madre, in fondo.

La sua è una storia d’amore e lei lo sa. È la storia di un uomo che si è tormentato ogni giorno della vita per cose che aveva fatto in guerra. È la storia di una moglie che è rimasta con lui, perché lo facevano quasi tutte le mogli quella generazione,  e che si presenta nella stanza d’ospedale della figlia e sproloquia nevroticamente dei matrimoni falliti di tutti gli altri, e nemmeno lo sa, nemmeno sa che cosa sta facendo. È la storia di una madre che ama sua figlia, in modo imperfetto. Perché amiamo tutti in modo imperfetto”.

 

Emma Fenu

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