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“Memorie di Negroamaro”: l’armonia nascosta nelle pieghe del tempo

Valentina è una ragazza splendida: semplicemente standole accanto si ha la sensazione di trovarsi vicino ad un’anima bella. I suoi occhi grandi e attenti appaiono sinceri e il suo sorriso aperto infonde fiducia. E’ una giornalista e conosce il tempo lento della scrittura creativa. Dopo il suo primo libro, una raccolta di racconti dal titolo Un caffè in ghiaccio con latte di mandorla, sempre con le Edizioni Esperidi ha pubblicato Memorie di Negroamaro, un lungo racconto ambientato nel Salento, sua terra natia.

Valentina Perrone è nata nel 1980, eppure ha la freschezza di una ventenne, che si dispone alla vita con l’incanto dei puri. Lo stesso accade per la sua scrittura: curata, carezzevole, fresca. Le sue storie si leggono piacevolmente e donano emozioni: al centro della narrazione ci sono le persone comuni, che amano, lottano, sbagliano. Che guardano le notifiche che social network al mattino e che si alzano presto per andare al lavoro. Tutti si possono riconoscere nei suoi personaggi.

Nell’ultimo libro il Negroamaro, vino corposo e forte, tipico del Salento, è il pretesto per prendere il lettore per mano e fargli fare un viaggio in terra salentina, attraversando campagne e sentieri, per arrivare di fronte al mare e sentirsi più vicini al mistero della vita.

“Al vino Negroamaro si lega saldamente la storia contadina del mio paese, fautrice, negli anni, di memorie incancellabili lungo destini intrecciati alle viti come tra loro le foglie e i tralci, scrivendo, giorno dopo giorno, pagine indelebili di lavoro, sacrifici, amore e vita bella.”, spiega lei stessa nelle note finali del libro.

E’ Alessandra, una giovane donna salentina che vive e lavora a Milano, la protagonista del libro: in un attimo si trova catapultata in una storia che ritorna dal passato e la le sconvolge la vita.

Con lei viviamo i giorni di rientro forzato nel Salento e partecipiamo alle sue vicende interiori, mentre la natura, i profumi e i sapori salentini fanno da sfondo alla narrazione.

“Su quelle tavole è assai raro che manchino ragù e polpette fritte, in qualsiasi periodo dell’anno. E le polpette, per esempio, sono tra le prime ricette che a una bimba salentina capita di imparare.”

Un racconto di terra, intriso di mare: lo jonio intenso di Torre Lapillo, con i suoi tramonti mozzafiato e le sue sere dolci d’estate, in cui per un attimo le sofferenze sembrano dimenticate e si può dire “grazie alla vita”, per un attimo intenso e vero, prima che la vita continui a scivolare via.

Si parla di temi delicati, affrontati in punta di piedi: il cancro, la malattia che trancia giovani vite in maniera crudele, il dolore di chi resta. C’è la sofferenza, eppure c’è la speranza che ripulsa oltre il nero, a ricordare che quest’esistenza, anche se incomprensibile, va amata e accettata.

“Ci sono volte in cui le parole servono a poco, volte in cui bastano cose piccolissime per spalancare mondi immensi in grado di dare un senso ai molti percorsi del vivere.”

Si piange e si ama, restando attoniti di fronte ai grandi interrogativi della vita, che lasciano straniati e sembrano non avere risposta. E’ allora che la gente del Sud si rivolge al mare, infinito grembo materno, che accoglie senza chiedere nulla, che accarezza e culla.

“Rivolgevo al mare molti dei miei interrogativi, in una sorta di dialogo immaginario in cui sapevo che certamente avrei avuto ascolto. Perché il mare sa ascoltare. Qualunque sia la stagione che in lui si riflette, qualunque sia l’ora del giorno che lo rende specchio del sole: lui ascolta e in cambio restituisce pace.”

 E chi crede nel sole e nella forza dell’amore, alla fine, ne sarà ricambiato.

 

Maria Pia Romano

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