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Melania Mazzucco, nelle sue storie l’inquietudine di chi si avventura su strade nuove e la ribellione ai destini già scritti

Melania Mazzucco, romana, nota soprattutto per l’attività di narratrice − iniziata nel 1996 con “Il bacio della Medusa”, cui hanno fatto seguito numerosi altri romanzi − scrive anche per il teatro e la radio ed è autrice di saggi...

Melania Mazzucco, romana, nota soprattutto per l’attività di narratrice − iniziata nel 1996 con “Il bacio della Medusa”, cui hanno fatto seguito numerosi altri romanzi − scrive anche per il teatro e la radio ed è autrice di saggi.

 

La prima volta che ho incontrato la sua scrittura è stato nel 1996, quando ho letto “Il bacio della Medusa”, appena pubblicato. Lo trovai stupefacente, non riuscivo a credere che si trattasse di un’opera prima. Sicuramente c’è stato un lungo studio preparatorio, come pure nel romanzo sulla vita del Tintoretto, “La lunga attesa dell’angelo”. Anni di gestazione, immagino. Ma riesce a dedicarsi ad altro (la saggistica, le sceneggiature) durante la stesura dei suoi romanzi?

Come tutte le opere prime, “Il bacio della Medusa” è un romanzo nato con urgenza – come una vena d’acqua che alla fine fende la crosta terrestre e sgorga. Non ha avuto nessuna fase preparatoria. Ho cominciato a scriverlo senza aver preparato né una scaletta né un piano – non c’era architettura, schema, trama. I personaggi – peraltro nella versione originale, mai pubblicata e da me drasticamente tagliata prima di inviare il dattiloscritto agli editori, più numerosi di quelli della versione definitiva – erano nitidi nella mia mente, e così i luoghi, e talvolta le voci. Procedevo per nuclei tematici, non seguendo l’ordine cronologico degli eventi. E la prima scena che ho composto è davvero la prima che appare nel romanzo: quella in cui il fotografo è nella camera oscura e vede affiorare sulla lastra le figure della scena che ha inquadrato. Cioè gli sposi e gli invitati alle loro nozze, con l’intrusione della piccola Medusa. Il processo di scrittura è stato molto simile a quello dell’emersione dell’immagine. Così nel romanzo sono tornate impressioni, esperienze e studi che avevo fatto nei primi venticinque anni della mia vita. Le ricerche sulle condizioni delle donne nei manicomi italiani all’inizio del ‘900 e sulle ragioni del loro internamento, la mia passione per i fotografi di nozze e gli ambulanti con la lanterna magica, le migrazioni in Francia degli abitanti delle Alpi Marittime, lo sfruttamento dei bambini figli dei diseredati, venduti, affittati, abusati… Di solito, quando scrivo un libro, non riesco a occuparmi d’altro. Invece dedico alle attività collaterali, alle scritture parallele, i periodi in cui non sono immersa nell’elaborazione di un romanzo. Ma la ricerca non precede la scrittura di un romanzo: lo segue. Talvolta corre parallela a quello, come nel caso della “Lunga attesa dell’angelo”, che ho scritto insieme alla biografia della famiglia Tintoretto “Jacomo Tintoretto & i suoi figli. Storia di una famiglia veneziana”. Lì il lavoro d’archivio generava la narrazione, o la modificava, in un processo vivo di osmosi.

 

Da “Un giorno perfetto” è stato tratto l’omonimo film dal regista Ferzan Ozpetek. È in qualche modo intervenuta nella trasposizione cinematografica? Quando ha visto il film (se lo ha visto), ha riconosciuto i suoi personaggi, cioè le sono sembrati somiglianti a quelli che di raffigurava lei mentre scriveva?

Essendo una cinefila, un’appassionata spettatrice e anche una ricercatrice di storia del cinema, credo nell’autonomia artistica del film – che non è mai solo la traduzione di un testo preesistente, quale che sia. Credo perciò che ogni film tratto da un romanzo, anche da un mio romanzo, debba diventare qualcosa di diverso. Così non partecipo alle sceneggiature e non l’ho fatto per “Un giorno perfetto”. Sono convinta che, quando scrive un romanzo, lo scrittore ‘dirige’ già il suo film. Non si limita a costruire la trama e i dialoghi, ma crea gli spazi, gli ambienti, i costumi, le luci, i rumori e le voci, il ritmo. Ciò che in un film fanno lo scenografo, il costumista, il direttore della fotografia, il tecnico del suono, il montatore, sotto la direzione del regista. Lo scrittore è il ‘regista’ della storia che scrive, però non di quella che diviene immagine sul set. Non è lui che sceglie come aprire o chiudere una scena, e come collegarla a quella che segue; non è lui che dirige gli attori e sceglie il tono delle battute, il modo in cui i personaggi si muovono, parlano, comunicano col corpo e col volto. Un film è invece la somma di tutti questi elementi. Così i personaggi del film “Un giorno perfetto” hanno i nomi dei personaggi del mio romanzo, a volte compiono le stesse azioni e dicono le stesse frasi. Ma sono diversi – incarnati da attori voluti da un altro artista, Ferzan Ozpetek, che li ha immaginati e illuminati, e vi ha impresso la sua visione del mondo, i suoi colori, le sue ossessioni, la sua identità.   

 

In genere le storie che lei costruisce si snodano in lunghi archi temporali, seguono i personaggi attraverso gli anni e le alterne vicende dell’esistenza, sul fondale di una società che muta. Invece, in “Un giorno perfetto”, tutto si svolge in pochi giorni. Pochi sono anche i personaggi. Cosa l’ha spinta a un cambiamento tanto radicale rispetto ai romanzi precedenti?

Ogni storia per me ha il suo tempo. “Vita” è un’epopea, e aveva bisogno di seguire le vicende dei personaggi per molti anni. “Un giorno perfetto” è una tragedia, e aveva bisogno di unità di tempo e di luogo, e la misura delle ventiquattro ore mi è sembrata la più appropriata. “Limbo” si svolge durante le vacanze di Natale, e nei 167 giorni della missione di Manuela Paris in Afghanistan, perché ciò che dovevo mettere a fuoco non era tutta la vita della protagonista, ma la sua esperienza di comandante di plotone in una base operativa avanzata e le difficoltà del suo ritorno a casa. “Sei come sei” invece dura pochi giorni, perché breve è il tempo concesso a Eva per stare con suo padre Giose. Non è qualcosa che decido prima di scrivere, ma un ritmo che in qualche modo si impone da solo. Per me il ‘tempo’ di un romanzo è il suo respiro. Alcune storie possono correre la maratona, altre gli ottocento metri…

 

Le sue protagoniste sono spesso donne poco convenzionali, come la Medusa del suo romanzo d’esordio, come Marietta, la figlia del Tintoretto, come la donna soldato di “Limbo”. Possiamo dire che la ribellione femminile agli schemi che le vorrebbero incasellate in ruoli preconfezionati è uno dei temi che le sono più cari?

Ho sempre rifiutato l’idea che il nostro destino sia già scritto. Il luogo in cui siamo nati, le condizioni economiche della nostra famiglia, il genere sessuale, le esperienze che facciamo, gli studi, i mestieri, gli amori: tutto influenza, conta e segna. Ma non determina. Siamo liberi, e possiamo cercarci – e cercare di capire chi siamo e cosa vogliamo essere – nel corso di tutta la vita. Così mi interessa esplorare le zone di confine. Donne e uomini che rischiano, e si avventurano su strade nuove, a volte proibite. Raccontare donne realmente esistite, come Marietta Tintoretta o Annemarie Schwarzenbach, che in altre epoche hanno praticato lavori ‘virili’ o affrontato viaggi impossibili, rifiutando di rinunciare alle loro passioni e di soffocare la loro personalità perché donne. Oppure raccontare figure immaginarie ma possibili, come l’alpino Manuela, o il musicista Giose, che infrangono tabù millenari apparentemente immutabili – lei nata per dare la vita che sceglie il mestiere delle armi, lui che vuole essere padre con un compagno e non con una donna. Suppongo che questa inquietudine sia il filo d’oro che tiene insieme tutte le mie storie.

 

La protagonista del suo ultimo libro, “Sei come sei”, è Eva, una ragazzina in fuga, disorientata dalla disintegrazione della sua famiglia. In altri suoi romanzi il tema delle angosce dei giovanissimi affiora, ma in questo caso ha un’assoluta centralità. È stato difficile raccontare una storia complessa come quella di Eva e del suo mondo friabile?

Alcune lettrici molto giovani mi hanno fatto notare che nei miei romanzi c’è sempre almeno un bambino, una ragazzina, un adolescente. E che questo è un fatto insolito. Non ci avevo mai pensato, e sono rimasta colpita da questa osservazione: perché vera. Non riesco perciò a separare Eva dalle ragazzine che l’hanno preceduta in altri miei romanzi – come Medusa, Azra, Vita, Valentina, o la stessa Marietta. Tutte abitano un mondo in pezzi, devono affrontare spaesamento, perdita, lutto, separazione, e ciononostante crescere. Forse la ragione del mio interesse per gli esseri umani in formazione è che – raccontando le storie anche attraverso i loro occhi – sei costretto a guardare il mondo come se fosse la prima volta. Un bambino o un ragazzino non ha un’esperienza con cui confrontare ciò che vive. Lo vive, intensamente, abbandonandosi al presente. E scrivere – vivere le vite degli altri – richiede la stessa innocenza e la stessa avidità di conoscenza.

 

Una domanda che faccio sempre a chi scrive è: cosa le piace leggere? C’è un libro, o più libri, che per lei sono stati fondamentali?

Leggo davvero di tutto, e l’ho sempre fatto. Amo i romanzi di guerra, l’epica, i memoir, le corrispondenze e i diari degli scrittori, la saggistica storica e d’arte, le favole, la fantascienza, i libri di viaggio, i romanzi epistolari del ‘700… Tutti i libri che ho letto hanno lasciato un’impronta su di me, e a tutti devo qualcosa. Siccome ho uno spirito combinatorio e non gerarchico non saprei dire se I fratelli Karamazov è stato per me più importante del Sentiero dei nidi di ragno o dell’Isola di Arturo, se preferisco Marina Cvetaeva o Anna Achmatova, Sade o Laclos, Hugo oppure Stendhal, Garcia Marquez o Vargas Llosa, Simon Shama o Robert Hughes, Nicolas Bouvier o Ella Maillard… Cerco di leggere i classici che finora ho mancato, i miei coetanei, i miei contemporanei – Esterházy, Ghosh, Cercas, Littell, Maalouf, Uson, Leine, Shafak… Ma sono curiosa anche dei nuovi e dei nuovissimi, e scoprire una voce fresca mi incanta.    

 

Con “Vita” ha vinto il premio Strega nel 2003. Ma anche all’estero lei è un’autrice molto premiata. C’è uno di questi riconoscimenti al quale è particolarmente affezionata, che le ha regalato un’emozione più del solito intensa?

Per un’italiana, il premio Strega ha una risonanza speciale, perché è legato alla nostra storia, e l’hanno vinto scrittori importanti per la nostra formazione (da Flaiano fino a Volponi). In generale, i premi assegnati dai lettori sono preziosi, e perciò mi è stato caro sapere che i lettori delle biblioteche pubbliche di Roma scelsero “La lunga attesa dell’angelo” come miglior romanzo dell’anno o che i ragazzi dei licei spagnoli avevano scelto “Vita”. Però ricordo che mi emozionai molto quando seppi che “Jacomo Tintoretto & i suoi figli” aveva vinto il premio Pozzale per la saggistica: lo aveva attribuito una giuria della quale faceva parte Adriano Prosperi, professore che considero maestro inarrivabile negli studi storici. E poi sono legata ai premi che portano il nome di scrittori, intellettuali, artisti: il Vittorini, il Croce, il Comisso, il De Sica… E’ bello sapere di essere l’anello di una catena che non può spezzarsi.

 

A cosa sta lavorando in questo momento?

Sto preparando l’edizione per Einaudi del “Museo del Mondo” – la raccolta dei miei scritti d’arte apparsi su La Repubblica lo scorso anno.

 

Grazie per il suo tempo e le sue risposte.

Rosalia Messina

31 maggio 2014
 
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