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Marco Balzano, “I premi non cambiano la vita, la migliorano”

Abbiamo intervistato l'autore, tra i papabili vincitori del Premio Strega 2018 con il libro "Resto qui", un romanzo ambientato nel paese di Curon Venosta durante il Ventennio fascista

TORINO – “I premi letterari? Li reputo un incoraggiamento a continuare e ad avere responsabilità verso il proprio lavoro”. Parola di Marco Balzano, Premio Campiello 2015 con “L’ultimo arrivato” e tornato in libreria con “Resto qui“, un romanzo nato da un viaggio casuale dell’autore ma che ha dato vita ad una storia ambientata nel paese di Curon Venosta durante il Ventennio fascista. Abbiamo intervistato l’autore tra i papabili vincitori del Premio Strega 2018.

 

Come nasce il romanzo “Resto qui”?

Sono capitato per caso in questo piccolo paese di confine che si chiama Curon Venosta. Ero con mia figlia Caterina. Mi è sembrato che il campanile che galleggia sull’acqua fosse un’immagine di grande potenza narrativa: mi piaceva l’idea che dovessi raccontare ciò che è sommerso. In fondo, ho pensato, è questo il ruolo dello scrittore: portare a galla qualcosa che giace sotto o che sta nell’ombra. Raccontare storie è un’operazione verticale. Del resto, il racconto della superficie è praticamente impossibile da non sentire. Siamo pieni zeppi di informazioni e di cronaca. Le storie, invece, hanno un altro passo e un altro scavo, che necessariamente buca la pelle delle cose. Così ho iniziato a studiare quello che è successo a Curon e in Sudtirolo e mi è parso subito che fosse un pezzo di storia italiana (ed europea) con cui non abbiamo fatto per nulla i conti. Questa storia volevo che la raccontasse una donna perché da sempre volevo scrivere un racconto in prima persona al femminile. Trina, diminutivo di Caterina, è una maestra clandestina, una di quelle donne che prendeva i bambini durante il fascismo e, correndo il rischio di finire al confino, li portava nelle cantine o nelle stalle a imparare il tedesco, la lingua che Mussolini vieta di parlare per italianizzare violentemente tutta questa regione. Trina è una donna che resiste, che punta i piedi per rimanere attaccata al suo posto e alle sue persone. È una donna-edera. La sua voce ci arriva da anni molto vicini ai nostri, quando quel paese da tempo non c’è più (venne distrutto nel 1950) ed è diventato un paradossale luogo turistico. Trina racconta a Marica, sua figlia scomparsa molti anni prima, tutta quella vita che avrebbero dovuto vivere assieme e non hanno vissuto. Resto qui è come una lunga lettera, intima e rabbiosa, che una madre scrive a sua figlia, la cui assenza è la presenza più ingombrante del racconto, proprio come la minaccia della diga che alla fine sommergerà il paese.

 

Quanto c’è di “fiction” e quanto di reale all’interno dell’opera?

Una volta avuta cognizione degli eventi bisogna – è strano a dirsi ma è così – accantonarli. Bisogna fare in modo che la grande Storia attraversi la storia degli individui. La letteratura deve sempre far primeggiare la dimensione umana: affetti, traumi, quotidianità… La Storia è una materia disumana, che scarnifica i suoi protagonisti, che per altro sono sempre i vincitori. A me, invece, interessano i vinti in tutto il loro carico di umanità.

 

Dalla storia all’attualità: quanto c’è di contemporaneo all’interno della trama del tuo libro, ambientato negli anni Venti?

Se non ci avessi visto una storia tremendamente attuale non l’avrei mai scritta. Non ci si può accontentare degli aneddoti, per quanto drammatici o emblematici. Il racconto è sempre metaforico e la letteratura parla di oggi anche quando racconta i nostri ieri. L’attualità della vicenda mi pare che sia evidente: c’è una comunità che di fronte a un progresso dissennato, che passa brutalmente sopra la testa delle persone, resta inerme a guardare. Ne è certamente vittima, ma ha anche la responsabilità di non reagire e di non presidiare a sufficienza le sue appartenenze, i suoi diritti, i suoi luoghi. Trina, insieme al marito Erich, è tra i pochi che incita alla resistenza e anche quando sa che le parole non la salveranno ci si aggrappa con tutta la sua rabbia e tutta la sua dignità.

 

Come, e se è cambiato, Marco Balzano come uomo e come scrittore dopo la vittoria del Premio Campiello 2015?

Non mi sento cambiato: continuo a insegnare, ad avere gli stessi interessi (su tutti la musica e il vino), gli stessi amici. I premi non cambiano la vita, la migliorano. Li reputo un incoraggiamento a continuare e ad avere responsabilità verso il proprio lavoro.

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