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Lella Ravasi Bellocchio, ”I libri ci aiutano a guarire”

Storie d'analisi di grandi e di bambini, che raccontano attraverso il metodo del ''gioco della sabbia'' quello che neppure le parole riescono a dire: di questo si parla nel nuovo libro della psicanalista Lella Ravasi Bellocchio, ''Come un pietra leggera''...
La psicanalista ci parla del suo nuovo libro, “Come una pietra leggera. Giochi di sabbia che curano”
MILANO – Storie d’analisi di grandi e di bambini, che raccontano attraverso il metodo del “gioco della sabbia” quello che neppure le parole riescono a dire: di questo si parla nel nuovo libro della psicanalista Lella Ravasi Bellocchio, “Come un pietra leggera”. L’autrice – che ha già firmato altre pubblicazioni di successo – ci spiega in cosa consiste questa tecnica e insiste sull’importanza che la narrazione, il sapersi raccontare, ha in un percorso di guarigione interiore. In questo, i libri ci vengono in aiuto.
Com’è arrivata a occuparsi dell’argomento tratto in questo libro, il gioco della sabbia?
Il gioco della sabbia è stato ideato negli anni Trenta dalla pediatra inglese Loewenfeld, che lo chiamava “gioco del mondo” e lo usava come test proiettivo per i bambini. Io l’ho appreso come metodo terapeutico 30 anni fa, facendo una parte della formazione con Dora Kalff, la psicologa allieva di Jung che ha perfezionato e reinventato questo metodo fondando poi una sua scuola. 
Ci può spiegare qualcosa di più di questa metodologia? 
È una tecnica fondata sull’uso della materia anziché della parola: non si parla, si fa. Ci sono due contenitori, uno di sabbia asciutta e uno di sabbia bagnata, con fondo azzurro e alcuni oggetti da posizionare all’interno – figurine, sassi, conchiglie, rametti – che i pazienti possono utilizzare per realizzare le forme che vogliono e raccontare quello che vogliono. Possono dar vita a dei combattimenti, costruire un castello, una galleria, una pista per le biglie. Il metodo viene utilizzato sia con adulti sia con bambini, anche se con questi ultimi è molto più immediato. 
A differenza del disegno, la sabbia libera dalla tecnica: la riuscita in questo caso non dipende tanto dalla bravura o dal talento. È a tutti gli effetti un gioco, ma un gioco che consente di raccontare parti importanti di sé che non si riescono a dire a parole.
Come dall’immagine si arriva poi alla parola, alla ricostruzione di una storia?
Alla fine si parla con il bambino, o con il paziente, di quello che ha fatto, gli si fanno delle domande su quello che ha costruito. 
Il racconto è fondamentale, ogni rapporto analitico si basa sulla narrazione, ma la ricostruzione della storia deve avvenire in maniera molto lieve, non troppo diretta, soprattutto con i bambini. Se un bambino mette una tigre al posto della mamma non gli si chiede direttamente la ragione di questa scelta, ma certamente ci si interroga sul suo significato.
Secondo la sua esperienza, libri e letture possono aiutare chi soffre a trovare la via per ricostruire se stessi, per imparare a raccontarsi, per compiere un percorso interiore di guarigione?
Secondo me sì, lo vedo con i miei libri – questo non è il primo che pubblico. 
Ce ne sono due in particolare dei quali, a distanza di anni, molte persone mi dicono ancora che sono di grande aiuto. Sono “Di madre in figlia”, che ho ripubblicato in nuova edizione qualche anno fa ma è uscito la prima volta nel 1987, e “La lunga attesa dell’angelo”, sulle donne il dolore in analisi. 
Quello che credo faccia il loro successo è proprio che sono libri capaci di raccontare, di narrare, non sono volumi teorici. Leggere un manuale teorico difficilmente può esser d’aiuto, può anzi risultare rischioso: chi lo legge può far l’errore di cercare una “ricettina”, un “come si fa”, il che è controproducente. 
Come accade in analisi, dove quello che aiuta è il narrare, il raccontare, anche nella scrittura e nella lettura bisogna permettere che la parola fluisca lieve e tocchi i sentimenti dentro di sé.
6 novembre 2013
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