Perché leggere “Il diavolo sulle colline” di Cesare Pavese in estate

25 Giugno 2025

Romanzo breve ma profondo, “Il diavolo sulle colline” di Cesare Pavese è la lettura perfetta per l’estate: un racconto di inquietudine giovanile, desiderio e disincanto tra le colline torinesi.

Perché leggere “Il diavolo sulle colline” di Cesare Pavese in estate

L’estate, per molti, è il tempo della leggerezza. Ma non solo. È anche la stagione in cui il silenzio può diventare più assordante, i paesaggi più rivelatori, i legami più fragili. È in questa luce feroce e dorata che si muove “Il diavolo sulle colline” di Cesare Pavese, un romanzo breve e densissimo che racconta un’estate nella provincia piemontese, ma potrebbe accadere ovunque: ovunque ci siano colline, gioventù inquieta e il desiderio sottile, quasi impercettibile, di un abisso.

Pubblicato per la prima volta nel 1949, questo libro continua a vibrare di un’intensità contemporanea. Non c’è nulla di nostalgico né di consolatorio: è un’estate fatta di giornate in apparenza uguali, sature di vino, chiacchiere, attese. E sotto la superficie, il richiamo del vuoto. Di quel “diavolo” che è una figura e insieme una metafora.

“Il diavolo sulle colline” di Cesare Pavese

Una giovinezza sospesa

I protagonisti di “Il diavolo sulle colline” sono tre giovani torinesi, borghesi e intellettuali in erba, che si rifugiano tra le colline di Torino per una vacanza senza scopo. Non hanno nomi definiti, vivono di gesti quotidiani e parole inconcludenti, galleggiano su un presente opaco, come chi ha troppo tempo e troppo poco da fare.

Sono giovani, ma non vitali. Lontani dalla guerra che è appena finita, eppure incapaci di ritrovare un centro. A smuovere questo equilibrio sonnacchioso arriva Poli, personaggio magnetico, inquieto, autodistruttivo.

Poli è il “diavolo” sulle colline: figlio di industriali, ricco e dissipato, appassionato di Nietzsche, droghe e rovina. Ma non è il classico “cattivo esempio”. È piuttosto una figura tragica, una premonizione.

Con la sua comparsa, la calma estiva dei protagonisti si incrina. La campagna, che sembrava promettere quiete, diventa uno specchio deformante. Le giornate si fanno afose, le notti più lunghe, l’ozio più pesante.

La scrittura di Pavese è tesa e musicale, fatta di frasi brevi, dialoghi scarnificati, paesaggi che diventano stati d’animo. Ogni collina, ogni casa colonica, ogni ora del giorno o della notte è più che un semplice scenario: è un personaggio silenzioso, una presenza.

E la lingua, pur nella sua essenzialità, riesce a contenere l’intero dramma della crescita: il passaggio inavvertito tra spensieratezza e disincanto.

Un’estate che non salva

Nel paesaggio estivo che Pavese descrive, il tempo non guarisce: esaspera. L’estate non è una stagione felice, ma un acceleratore di consapevolezza. È il momento in cui i protagonisti – e forse ciascuno di noi – si trovano davanti alla natura non come rifugio, ma come rivelazione.

Le colline torinesi, descritte con occhio cinematografico e orecchio poetico, non sono mai idilliache: hanno curve sensuali ma anche ombre minacciose, calore eppure distanza. Sono l’immagine del desiderio e del suo fallimento. Non c’è una vera trama nel senso tradizionale.

Ma c’è una traiettoria emotiva: dall’indifferenza alla fascinazione, fino a un’amara presa di coscienza. L’illusione che qualcosa, o qualcuno, possa salvare quei giorni vuoti si infrange contro il destino ineluttabile di Poli.

L’amicizia, l’amore, la ribellione: tutto si dissolve nella polvere estiva. In “Il diavolo sulle colline”, Pavese compone un ritratto lucidissimo e struggente di un’epoca della vita – la fine dell’adolescenza – in cui ogni cosa sembra possibile ma nessuna sembra vera. E lo fa con un distacco che non è cinismo, ma visione. Il “male di vivere” qui non è retorica: è fatto di silenzi, sguardi, scelte mancate.

Una lettura per l’oggi

Leggere “Il diavolo sulle colline” oggi, in un’epoca in cui l’estate è spesso narrata come tempo di evasione e piacere, è un atto quasi sovversivo. Significa restituire a questa stagione la sua profondità, il suo potere evocativo.

Significa accettare che il caldo non porti sempre sollievo, che la natura non sia solo bellezza, ma anche ambiguità. E che crescere, ancora oggi, fa male.

In un tempo in cui la giovinezza è esibita e consumata, Pavese ci mostra una giovinezza osservata con pudore e con inquietudine. I suoi personaggi non postano foto, non si dichiarano, non si ribellano apertamente: si lasciano attraversare dalla vita, e nel farlo, la rivelano.

Perché leggerlo in estate

“Il diavolo sulle colline” è il libro perfetto per un’estate diversa. Non quella delle spiagge rumorose, ma quella delle ore lente, dei pensieri che si fanno spazio tra un tramonto e un’alba. È una lettura breve, ma che resta.

Capace di lasciare domande in sospeso, immagini vivide, frasi che tornano a galla dopo giorni. È un romanzo che non offre risposte ma mette a fuoco: la bellezza inquieta della giovinezza, la violenza dell’estate, il fascino sottile e letale del vuoto.

E in questo, ha qualcosa di profondamente estivo. Perché, come scrive Pavese, “le colline non cambiano mai, sono il cuore antico delle cose”.

© Riproduzione Riservata