In un salotto di via del Fiore Rosso una donna prende una penna d’oca, entra in trance (o finge di farlo, riproducendola molto bene) e consegna un responso scritto a chi, seduta dinanzi a lei, lo paga cinque lire. “La sonnambula” è il nuovo romanzo di Bianca Pitzorno, edito per Bompiani, che strizza l’occhio ai consulti domestici, previsioni che parlano di destino in un mondo tutto al femminile, dove la curiosità e intelligenza sociale trabocca.
Il “dono”
Una bambina “abitata da un dono”, quattro donne che vogliono conoscere il loro futuro, un romanzo che promette di mettere al centro il pensiero femminile come forza narrativa: questo è “La sonnambula”, una dichiarazione poetica che spinge i personaggi a cercare cosa si nasconde dietro il mistero delle previsioni domestiche, a pagarle e a crederci.
Ma di cosa si tratta esattamente questo “dono”?
La protagonista cresce con addosso un’anomalia che non assomiglia a un semplice talento: fin da bambina è attraversata da svenimenti improvvisi e, al risveglio, porta con sé il presentimento di un evento futuro. È un sapere involontario, ingestibile, e proprio per questo produce ansia: in famiglia, nella comunità, in chi le sta vicino. La reazione è quella tipica con ciò che eccede una definizione comoda: provare a incorniciarlo. La famiglia cerca una soluzione rispettabile, una sistemazione, l’idea che la normalità sappia addomesticare ciò che fa paura.
Poi la cornice cede. Arriva lo strappo e con lo strappo la fuga: più lontano possibile, con le proprie forze. È lì che nasce Ofelia Rossi, “rinomata sonnambula”, in una città della Sardegna: donna sola, capace di trasformare il dono in un mestiere e il mestiere in autorità. Nel salotto di via del Fiore Rosso ascolta inquietudini, desideri, timori; restituisce una direzione, una possibilità, una frase da portare addosso.
Il romanzo sembra evitare l’occulto e preferisce il teatro dell’intimità (la trance, la scrittura, il responso fissato sulla carta) con gesti ripetuti che costruiscono potere e, nello stesso tempo, mostrano quanto quel potere possa diventare fragile quando la vita smette di rispettare la parte assegnata. A un certo punto accadono eventi che sfuggono perfino alla regia della sonnambula e il passato, quello rimosso, torna a bussare con una puntualità che non ha bisogno di effetti speciali.
Una stanza che fa lavorare i desideri
Un salotto è un luogo perfetto per questa storia. Non è tribunale e non è chiesa: è un interno dove le persone si concedono un filo di libertà in più, ma tengono comunque qualcosa indietro. Ci si confessa a metà, l’altra metà si recita, sperando che qualcuno la traduca. In quella stanza la domanda sul futuro smette di sembrare superstizione e diventa psicologia: quasi mai chiediamo “cosa accadrà” per sapere. Lo chiediamo per reggere il presente.
E infatti i vaticini, qui, somigliano a un contratto implicito: tu mi dai una frase, io posso continuare a camminare. È una dinamica concreta, quasi quotidiana. Il destino diventa un oggetto di scambio perché l’incertezza pesa. E quando a portare l’incertezza sono soprattutto donne, la previsione smette di essere capriccio: diventa negoziazione di spazio.
Gotico e picaresco
La storia nasce con un innesco ottocentesco, vale a dire un classico ritaglio di giornale, al quale l’autrice aggiunge un impasto di avventura, amore, gotico e picaresco, ma anche un tono onirico, ironico e politico insieme. Tuttavia, la parte interessante de “La sonnambula” non è l’elenco dei generi in cui potrebbe incasellarsi quanto più la funzione che questi filtri possono avere.
Il gotico, in questo tipo di romanzo, non serve a decorare le scene, bensì a far emergere il non detto, a dare corpo a ciò che torna, a rendere visibile il rimosso. Il picaresco, invece, è una scuola di sopravvivenza: attraversare il mondo senza protezioni, cambiare pelle, contrattare, imparare regole che nessuno spiega. In mezzo c’è la trama come energia. E la vita che spinge, inciampa, si inventa strade.
Se la promessa regge, la Sardegna non apparirà come sfondo, ma come personaggio pulsante e luogo di reputazioni e desideri, di sguardi che decidono chi sei, di libertà che passa da vie laterali. In un contesto così, il destino non è una nuvola astratta: è il modo in cui gli altri ti concedono (o ti negano) una forma di vita.
Una scrittrice che ha allenato lo sguardo
Bianca Pitzorno ha costruito per decenni personaggi femminili che non chiedono permesso e trame che rendono leggibili le gerarchie senza trasformarle in predica. È una delle autrici italiane più amate da chi è cresciuto con i suoi libri, anche perché non ha mai trattato l’infanzia come recinto minore: l’ha trattata come il primo campo di battaglia tra immaginazione e realtà, tra regole e desiderio.
Negli ultimi anni alcune sue opere hanno circolato anche fuori dall’Italia, segno che la sua forza regge il cambio di lingua: la sua scrittura non si limita a “raccontare”, mette in moto società, norme non scritte, strategie quotidiane. E quando un’autrice così passa al romanzo “pieno”, la domanda più utile non riguarda ciò che cambia, ma ciò che resta: trama come motore, personaggi femminili come centro, potere come rete di conversazioni, favori, paure.
Conoscere il futuro
Quattro donne vogliono conoscere il loro futuro: così potremmo riassumere il libro, quantomeno il suo centro.
Ma si desidera conoscere il futuro quando questo sembra già deciso da altri, o quando lo si teme. Quando si sente la vita nelle mani di una famiglia, di un marito, del denaro, della reputazione. In quel caso la previsione assomiglia a un contrattacco: se non posso controllare il terreno, almeno voglio intuire dove crollerà.
Ofelia Rossi vende risposte a cinque lire. Quello che consegna davvero è un lessico per nominare l’ansia, una forma che rende attraversabile la giornata. Ma il mestiere porta un rischio sottile: trasformare la visione in identità. Se sei “quella che sa”, devi sapere sempre. Se sei “quella che vede”, perdi il diritto alla leggerezza, alla distrazione normale, a quel margine di ignoranza che spesso protegge.
Ed è qui che la trama, per come viene presentata, promette la mossa più interessante: l’imprevisto che rompe il copione. La vita entra e scompagina. Il passato torna e chiede conto. A quel punto la profezia smette di proteggere e comincia a stringere: una narrazione unica può diventare una gabbia.
La superstizione è un nome sbrigativo per un bisogno
Esiste un modo superficiale di leggere la divinazione: colore d’epoca, eccentricità, mania. Esiste anche un modo più realistico: bisogno di struttura. Di fronte a un’esistenza che cambia senza avvisare, l’essere umano cerca schemi, segni, qualcuno che tenga il filo.
Pitzorno sembra affidare questo bisogno alle donne senza idealizzarlo. Lo tratta come competenza: ascolto, intuizione, capacità di leggere ciò che non si dice. Il pensiero femminile, qui, suona come pratica, intelligenza applicata alla vita di tutti i giorni.
E la scrittura, nel gesto della penna d’oca e del responso fissato sulla carta, diventa ambigua in modo affascinante: scrivere dà forma, ma dà anche peso. Mettere il futuro in una frase lo rende quasi reale. Lo mette in circolo.
“La sonnambula” e la libertà
Se “La sonnambula” mantiene la sua promessa, allora la domanda finale non sarà “cosa succederà?”, ma cosa ti succede quando ti convinci di sapere? Come ti muovi, che cosa pretendi dagli altri, che cosa ti concedi?
Pitzorno ha raccontato spesso ragazze che imparano a leggere il mondo senza farsi leggere soltanto dagli altri. Qui sembra portare quel gesto un passo oltre: trasformare la previsione in mestiere e poi mettere quel mestiere sotto stress, finché non resta che una verità semplice. Sapere espone. A volte la libertà comincia quando accetti il limite delle visioni e ti riprendi il resto: la scelta di come stare dentro ciò che accade.
