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La lettura: confronto costante

“Signora cosa vuole da questi fogli di carta?”, mi chiese un giorno un uomo che era entrato a casa mia per sistemarmi il giardino.

Aveva grandi braccia e animo poco incline alla clausura. Io gli avevo offerto le mie pagine, convinta che anche lui potesse ricavarne bellezza. Poche righe in cui raccontavo la storia di una donna che viveva vendendo parole. Una favola a cui non credeva nessuno, all’infuori di me.

 

Forse la verità è che ci sono uomini che possono vivere senza libri. Uomini a cui è sufficiente seguire il ritmo incalzante della vita, che non hanno bisogno di rifugiarsi nel tempo lento di una pagina. Io ho sempre trovato conforto nella lettura. Quando non potevo scrivere, potevo leggere. La scrittura ti trova qualche volta. La lettura sa trovarti sempre, se hai un animo aperto al piacere denso dell’inchiostro sulle pagine.

 

Ho sempre creduto che gli scrittori potessero spiegarmi la vita meglio di quanto non potesse fare un genitore. Uno scrittore non si preoccupa per te, non è in ansia per te. Uno scrittore semplicemente ti racconta la vita: quello che lui ha capito della vita. La sua esperienza può essere più preziosa di mille raccomandazioni, perché uno scrittore vero è nudo davanti alla pagina. Con distacco ti serve la sua ricetta per affrontare la vita. Ed accade che un lettore possa scoprire la gratitudine verso uno sconosciuto. I miei fratelli, le mie sorelle, sono scrittori a cui non ho mai stretto la mano.

 

“Cosa vuole da questi fogli di carta?”, mi chiese ancora l’uomo.

Io ho taciuto. Non avevo riposte.

Non sono mai stata brava a fare strategie, semmai a seguire gli impulsi. E a non sottrarmi a quello che mi viene naturale: scrivere.

Ho sempre sbagliato credendo che avrei potuto campare di parole.

 

C’era stato davvero un tempo in cui avevo sfruttato il mio talento scrivendo lettere d’amore su ordinazione. Ci vuole stoffa anche a saper fingere con dignità freddezza verso le cose. Ci ho provato. In realtà anche le storie degli altri le vivevo nella pancia. Era l’unica cosa che mi consentiva di scriverle davvero le loro lettere. Perché io diventavo loro, diventavo ognuna delle loro storie. A alla fine avevo mal di testa, ma ero felice, perché appropriandomi delle loro lacrime avevo dimenticato le mie.

Si era sparsa la voce che ero brava, così in tanti iniziarono a chiedermi di diventare la paroliera dei loro amori.

Li facevo entrare all’ora del caffé. Offrivo caffé nero bollente. Oppure se d’estate lo facevo in ghiaccio col latte di mandorla. Nessuno poteva resistere al contrasto del gusto forte che andava incontro alla prepotente dolcezza che sapeva sciogliersi sul palato. Il caldo ed il ghiaccio insieme. Il dolce e l’amaro. Conosce questa delizia solo chi è approdato nel Salento.

 

Loro iniziavano a parlarmi, a volte piangevano, altre volte leggevo nei loro sguardi lo scetticismo di chi era entrato a casa mia tanto per una forma di curiosità maldestra che ti porta a crederti più furbo della vita. Alla fine tutti uscivano con un pezzo di carta, con qualche soldo in meno in tasca ed una segreta speranza in più nel cuore. Molte volte le mie parole portavano fortuna. In ogni caso erano capaci di arrivare dritte al cuore.

Ero riuscita a farmi conoscere senza sforzo alcuno.

 

Poi un giorno ho smesso. Quando ho avuto la certezza che avrei potuto scrivere milioni di lettere per gli altri, ma che non sarei mai riuscita a scrivere un’altra lettera per lui.

Lui aveva rifiutato la mia lettera. Era accaduto tanto tempo fa. Ma le ferite sono squarci nel petto e riprendono a sanguinare senza coerenza, spargendo disappunto sul lino bianco che copre il cuore. Io scrivevo le mie storie solo per lui. E proprio per lui non avrebbe mai potuto leggerle.

 

Avrei imparato con gli anni che le mie lettere d’amore avrebbero potuto far innamorare tutti gli altri uomini del mondo. Non lui.

Strano gioco del destino, che vuole che s’insegua un assurdo sogno di felicità senza accorgersi che si sta dando da mangiare ad un piccolo mostro che ci cresce nella pancia. Che ti divora se non gli dai da mangiare, eppure lo sfami solo per non ascoltare il suo lamento. Allora vorresti non averlo mai raccolto dalla strada. Avresti non avergli mai voluto credere, ma è troppo tardi, perché sei già drogata. D’amore malato.

 

Forse volevo solo che quelle pagine mi facessero stare meglio. In qualche modo.

Forse volevo affidare all’inchiostro le parole che non sapevo dire.

Forse volevo semplicemente essere accolta. Ma non glielo dissi mai.

Sentivo che sarebbe stato un errore spiegare qualcosa di così semplice.

  • Ma lei come sta?
  • Io come sto?
  • Si, lei come sta senza libri?
  • Signora, cerco di vivere.

E sorrise, di un sorriso strano, a metà tra ironia e dolcezza.

 

Quell’ uomo continuò a venire a casa mia e strappare erbacce finché il giardino all’ombra del barocco non ebbe una parvenza di ordine. Non gli parlai più della scrittura. Né lui fece cenno alcuno a quello che aveva letto.

Io avevo imparato a vivere con le mani nella mia terra, colorando di nero, ocra e ruggine le mie ore barocche.

In fondo sapevo che sarei morta giovane. Perché non sono mai invecchiata veramente io.

 

Avevo vent’anni il giorno che il mio musicista mi ha voltato le spalle.

Mi ha lasciata così, senza parlare. Ed io sono rimasta ad aspettare per tutta la vita l’anello che non è mai arrivato.

Ho continuato a sognare l’infinito, nelle mie solitudini d’inchiostro. Un infinito minore, tuttavia.

Il tempo per me non è mai passato. Il tempo non esiste.

Esiste solo quella musica che mi tiene sveglia di notte. Una musica che sento solo io.

Ed il delirio di parole di una sposa segreta perché da sempre inadatta alla vita.

Nessuna morte potrà sconfiggere la danza delle parole.

Maria Pia Romano

 

(Ottavo passo, tratto da “L’anello inutile”, Besa editrice)

 

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