Kader Abdolah è il protagonista di Dedica, l’evento che racconta un unico protagonista secondo una dimensione poliedrica attraverso non solo i libri ma i linguaggi dell’arte, del teatro del cinema e della musica. Giunto alla sua 31edizione Dedica, che si svolge dal 15 al 22 marzo a Pordenone, è il primo evento dopo la nomina della città friulana a capitale italiana della cultura 2027.
Chi è Kader Abdolah
Kader Abdolah, nom de plume di Hossein Sadjadi Ghaemmaghami Farahani, arriva in Olanda nel 1988 in fuga dalla Persia (come ama chiamare la sua madrepatria), dov’era membro di un movimento clandestino d’ispirazione marxista che mirava a rovesciare il potere costituito. Con il ritorno dall’esilio dell’Ayathollah Komehini, che nel 1979 porta alla nascita della Repubblica islamica dell’Iran, il nemico da abbattere diventa il regime clericale sciita.
Ma quando la SAWAK, la famigerata polizia segreta, è ormai sulle sue tracce, Hossein è costretto a lasciare la sua terra e approda come rifugiato politico nei Paesi Bassi e lì impara una nuova lingua-il nederlandese-che è quella con cui scrive quasi trenta libri, la maggior parte dei quali è stata tradotta in italiano e pubblicata dalla casa editrice Iperborea.
L’intervista all’autore
Cominciamo proprio da qui, dalla scelta di scrivere in una lingua che non è quella natia. Come tanti altri autori prima di lui da Italo Svevo a Franz Kafka da Joseph Conrad per arrivare a John Maxwell Coetzee, la lingua del cuore non è quella usata per scrivere. Come convivono e qual è la lingua in cui sogna ?
Rispondo con una battuta: se sogno donne iraniane allora la lingua è il persiano, se invece sogno donne olandesi la lingua è il nederlandese. All’inizio, giunto in Olanda, conoscevo poche parole e scrivevo facendo molti errori. Ho imparato l’olandese da autodidatta, leggendo libri per bambini semplici, chiari, con frasi brevi, Gli ayatollah avevano sequestrato la mia lingua, non potevo più esprimermi liberamente in farsi, ma le due lingue non sono mai entrate in conflitto: convivono per esprimere il mio mondo, quello da cui vengo e quello in cui vivo.
All’inizio facevo tantissimi errori poi, dopo tre anni il mio primo libro è stato pubblicato e si è parlato di una lingua nuova diversa da quella ufficiale. Ma come poteva essere? Lo spiego con l’esempio dei fiumi: quelli olandesi sono piatti e non si muovono, io invece vengo da un paese ricco di montagne e conosco corsi d’acqua movimentati con cascate e salti: perciò ho dato movimento e foga agli immobili fiumi olandesi. E mi sono sentito a casa, che non è un luogo fisico: la mia con l’albero di melo in Iran non c’è più.
Dove è la mia casa? E’ la lingua. O meglio i classici. Per gli italiani è Dante; per gli iraniani è la poesia sufi di Rumi: io ho cercato di portare in Olanda la tradizione culturale millenaria della Persia e quando realizzo questo, mi sento a casa. Ma non ho mai smesso di scrivere in persiano: tengo un diario quotidiano ed è il momento più bello della giornata.
Il Medio Oriente è appunto terra di tradizioni millenarie e di storie di eroi e di profeti, terra di racconti a partire da Sherazade, protagonista de Le mille e una notte: in che modo questa tradizione ha influenzato il suo modo di narrare?
Quando ero piccolo, nei villaggi remoti della Persia non c’era la televisione: c’erano i cantastorie. Appena arrivavano, la gente usciva di casa e si animava ai racconti tra favola e mistero e questa tradizione mi è rimasta nelle ossa. Penso che scrivere sia un processo magico legato al nostro passato culturale. Sono uscito dall’Iran a mani vuote ma con uno zaino pieno di ricordi, di libri e di storie.
Ognuno di noi è come un ramo di un albero molto antico con radici profonde. Se non conosciamo le nostre radici, la nostra storia più grande, non possiamo svilupparci veramente. Il più grande dono che è stato fatto all’uomo è appunto quello di raccontare storie. Mi sono portato dietro questa usanza orale della mia cultura.
E poi il racconto a cornice come succede nelle antiche raccolte classiche di racconti in cui una storia introduce quella successiva, come una catena ininterrotta di narrazioni, indipendenti ma nello stesso tempo tenute insieme da una cornice narrativa. E poi la poesia: per i persiani la poesia è come il vino per i francesi: se ne ubriacano. E le imparano a memoria. Le prime parole che un bimbo persiano deve ascoltare, non sono parole generiche, ma quelle di una poesia, al primogenito di Akbar, protagonista de “La scrittura cuneiforme” viene infatti letta quella dell’uccello Bolbol che in autunno teneva un bel petalo nel becco e tuttavia piangeva perché quel petalo gli ricordava l’amata.
Il richiamare versi di autori classici nelle opere letterarie persiane, di tutti i tempi, è un uso ricorrente che io ho cercato di mantenere nelle mie opere.
In “La scrittura cuneiforme” Kader Abdolah racconta la storia di Aga Akbar, un abilissimo annodatore di tappeti, un singolare testimone del tempo. Il figlio, poi esiliato e alter ego dell’autore, annoda su tappeti di carta le storie della sua terra natìa Anche ne La casa della Moschea, votato dai lettori olandesi come la seconda migliore opera mai scritta nella loro lingua e Premio Grinzane Cavour 2009, la famiglia di Aga Jan è legata al commercio di tappeti. L’Iran è la culla è la culla della tessitura a mano del tappeto: ma è forse una metafora?
I tappeti in Persia sono come la pasta in Italia: è la nostra tradizione: rappresentano uno degli esempi più raffinati dell’artigianato mondiale, una tradizione che attraversa secoli e si tramanda di generazione in generazione. Più che semplici oggetti d’arredamento, sono espressioni artistiche che riflettono l’evoluzione culturale, religiosa e sociale del mio popolo. E’ una forma di bellezza ed è anche una metafora ne La casa della moschea all’ombra dei minareti, si annodano amori, matrimoni, sogni, tresche e preghiere come i fili dei tappeti.
Ma, più in generale, i tappeti con i fili che si intrecciano e si annodano sono una metafora per rappresentare le varie anime di una società che deve stare insieme in armonia così come i diversi colori. Chi annoda i tappeti poi è dotato dell’arte della pazienza e dell’attesa, attitudini tipiche della tradizione della mia terra.
Un altro mondo frequentato da Kader Abdolah è il cinema: dalla videocamera con cui ne La Casa della Moschea si registrano i fatti per farli conoscere al mondo fino a Sultan Farahangi, protagonista de Il sentiero delle babbucce gialle. Come molti registi iraniani, inoltre Abdolah condivide l’esilio e il fatto di dover raccontare il proprio paese da lontano. In che modo la situazione odierna dell’Iran è raccontata da queste due arti?
Ne Il sentiero delle babbucce gialle ho nascosto me stesso dietro il personaggio del regista: la penna è la sua cinepresa e in generale penso che diverso sia lo strumento della rappresentazione ma uguale la finalità cioè far conoscere al mondo con diverse modalità sia il passato che il presente della Persia e soprattutto la sua bellezza.
E sia il cinema che la letteratura lo fanno condividendo una grande magia che è il dono del raccontare, la più importante prerogativa dell’essere umano. Ma sia i romanzi che i film hanno anche una funzione militante: l’unico modo per resistere. In assoluto solo grazie alla letteratura siamo in grado di avere un mondo migliore. Le pistole , le armi, la violenza non hanno mai funzionato. Solo la letteratura funziona.