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“Il Velo del silenzio”, il libro che denuncia la violenza in conventi e monasteri

L'autore del libro Salvatore Cernuzio ha raccolto i racconti di suore o ex suore vittime di violenza, abusi di potere e manipolazioni all’interno di istituti religiosi

Un libro per denunciare la violenza sulle donne in conventi e monasteri. Usano conventi come se fossero dei “banchetti del sesso” e le “spose di Cristo” come prede sopra cui sfogare le proprie voglie bestiali, nel silenzio complice della Chiesa di sempre, in saecula saeculorum. Se da una parte le sordite “nefandezze erotiche” di chi porta la tonaca, ma si macchia di peccati veniali, hanno e continuano a scatenare occasionalmente maremoti mediatici, dall’altra gli scandali stigmatizzati come “l’ultimo tabù” dei Sacri Palazzi, sugli abusi sessuali, di spiritualità e mobbing dietro le mura dei conventi, a danno di suore, ex suore e monache di clausura, non riescono ancora ad arringare le folle dell’attenzione pubblica mondiale. «Manca sempre un dopo! Eppure il problema dei soprusi nella vita consacrata femminile è “globale”, come aveva denunciato Papa Francesco, e tocca centinaia di membri di ordini e Congregazioni soggetti a manipolazioni, discriminazioni, ricatti, a una formazione eccessivamente rigida o una gestione didattoriale».

Il libro che denuncia gli abusi

A scoperchiare gli “autoritarismi compulsivi” più reconditi dell’immacolata Casa Pontificia, scavando nelle fibre più intime delle presunte «pratiche in voga negli istituti religiosi», per dirla come suor Elizabeth, è un vergato d’istinto senza filtri di Salvatore Cernuzio. “Il Velo del silenzio” (San Paolo Edizioni) del giornalista di Vatican News, l’house organ della Santa Sede, è tornato in gloria a seguito dell’ultimo caso arrivato alla cronaca di padre Marko Ivan Rupnik, l’artista gesuita, virile cultore del sesso a tre in nome della Santissima Trinità, accusato di abusi nei confronti di 20 suore. Il libro-bomba, dopo essersi guadagnato le colonne del Washington post, riemerge come diario di una forse (im)possibile redenzione, e si libra ad ali tese nell’Olimpo delle storie di vittime di violenze dimenticate nei chiaroscuri dello scacchiere curiale/ecclesiale del dicastero, facendosi portavoce di quella soverchiante quantità di donne animate dal fuoco della vocazione, ma indotte a indossare uno “velo” che pesa quanto un macigno dell’anima.

Suore “ribelli”

«Le storie di queste vittime di abusi sono tutte maledettamente uguali», tuona Cernuzio. «É quasi come se ci fosse un copione già scritto all’interno di conventi, istituti e monasteri, da seguire nei casi in cui alcune donne si presentano più “problematiche” rispetto alle altre. Più ribelli, magari solo perché più intelligenti; elementi di disturbo, magari solo per aver contestato un ordine o per aver chiesto di studiare, anziché fare solo pulizie in cucina». L’esperto di questioni Vaticane, che dal 2011 segue l’informazione religiosa e l’attività del Papa, rompe gli indugi e va dritto al cuore dei dis-velamenti: «Per queste donne viene usato ogni pretesto per l’emarginazione o per “farle fuori”: una salute precaria per cui la Congregazione non può farsi carico delle spese mediche, presunti problemi psicologici, caratteri difficili, o questioni di nazionalità, scadenti il più delle volte in forme di velato razzismo o pregiudizi, fino all’abuso di coscienza vero è proprio: “Non sei obbediente, non vuoi essere Santa, non hai la vocazione!”».

L’eco delle denunce

Ma allora come dovrebbe essere la condotta di ogni illibata e morigerata figlia della Chiesa di ordinaria chiamata? Che cosa deve avere una suora per essere veramente una zelante donna di Dio? A rendere la propria testimonianza, senza il sacro velo del bon ton sacerdotale, attraverso le pagine non convenzionali del libro-inchiesta, è Madre A.: «Alcune suore sono come le donne dell’Islam più radicale: possono solo lavorare, obbedire e stare zitte. E non pretendere niente. Solo una brava suora “sfinita di stanchezza” è una brava suora». In effetti, in alcune Case generalizie, come si suol dire e come sa bene la donna vocata, le mani che aiutano, sono più sante delle labbra che pregano: «Il tempo per la preghiera, è molto limitato, dovremmo dedicare secondo le Costituzioni alla preghiera almeno sette ore al giorno ma ne impieghiamo meno della metà per tutto ciò che c’è da sbrigare». Per tutta risposta, invece, «si spiritualizzano i problemi». Ragion per cui, secondo la claustrale, «servirebbe una purificazione». Certo, «ma che utilità ha se poi il sistema rimane sempre uguale?».

Madre Elizabeth, la testimonianza

Anche la “no Sister” della sua congrega, Madre Elizabeth, mai supina alle decisioni di madri, “matrigne” o badesse, squaderna aspetti inediti della vita “militar-monastica”: «Non appena una ragazza, una donna, entra in Congregazione viene eliminato tutto ciò che riguarda l’identità personale, quindi l’acconciatura dei capelli, lo stile degli occhiali, le scarpe e l’abbigliamento, la biancheria intima. Parlare di esperienze personali passate di qualsiasi tipo è proibito; la posta in entrata e in uscita viene letta e controllata; le chiamate e le visite a casa sono estremamente limitate. Proibita pure qualsiasi forma di relazione interpersonale o uno spazio di privacy. Si dorme in grandi dormitori, si mangia lo stesso cibo e le stesse porzioni di cibo, si chiede il permesso per tutto, compreso l’uso del bagno». Ma non solo, confessa la “Sister”.

In alcuni conventi particolarmente degni di nota e “compassione”, quelli, per intenderci, avvezzi a creare più ferite che vocazioni, le sorti delle suore di Dio, in alcune circostanze, sembrerebbero essere decise proprio dalle superiore. «Una credenza sociale è che coloro che godono di una qualche autorità “hanno la grazia” per i loro sottoposti. Perciò a me, già prima e durante il noviziato, è stato insegnato che era la sorella responsabile a determinare se noi ragazze avessimo o meno la vocazione. Se volevamo andarcene, ma lei pensava che eravamo chiamate, avremmo commesso un peccato mortale. Allo stesso modo, se qualcuna di noi si sentiva chiamata, ma non rientrava nelle sue grazie, non avrebbe mai preso i voti. Negli anni ho scoperto che si tratta di una pratica comune», conclude suor Elizabeth. L’aggravante? «Quello che è successo è che tutto è rimasto “com’era nel noviziato e ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen”».

Sara Cariglia

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