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Il ritorno delle “beghine”

Da bambina, con mio fratello, esprimevamo a voce alta il nostro fastidio per certe amiche di mia madre: “Cavoli, ma proprio quella lì deve frequentare?”, le chiedevamo infastiditi. Donne conosciute per lo più in parrocchia, dall’aspetto notevolmente dimesso (voleva essere un look da persona perbene), che in realtà quando parlavano degli altri ne avevano per tutti: chi si era arricchito chissà come, quella là che ma chi si crede, l’altra che l’ho vista ieri e sorrideva al garzone del salumiere… In compenso, le brave donne organizzavano collette per i poveri, assistevano i malati, andavano a messa alle 6 del mattino, forse una forma di devozione penitenziale. Quali poveri, quali malati, quali preghiere, mi chiedevo stupita. Sentivo puzza di fumo, non d’incenso. Mio fratello le chiamava le beghine (per chi non conosce bene il termine: donne che ostentano devozione e assiduità nelle pratiche religiose; bacchettone, soprattutto incapaci di vivere serenamente), mah, io le trovavo false, più tardi avrei usato l’aggettivo giusto: ipocrite. Mai avrò amiche così, mi ero giurata.

Infatti, ero convinta di non averne, finché dopo un po’ di tempo ho ritrovato una ormai vecchia cara amica, anche collega per un periodo. Lei se ne guarda bene dall’andare in chiesa, fare collette e però talvolta assiste qualche amica malata. Ma la sua conversazione, un tempo brillante, è cambiata. “La tizia che veste in modo vistoso e si dà tanto da fare per arruffianarsi tutti? Ma sì, ma non vedi che tipa è? Una rovina famiglie, roba da vergognarsi a frequentarla” (ho di molto edulcorato il linguaggio, ndr). L’altra che è ha fatto così tanta carriera? “Ma guarda, io l’ho conosciuta non bene, benissimo. So io com’è arrivata fin lì, povero il suo fidanzato di allora, gran cornuto”. E via di questo passo, non una parola buona per nessuno sennonché quelli che nella vita hanno avuto delle sfighe con le quali, grazie a Dio, non è possibile concorre.  Insomma, nessuno cui sarebbe possibile invidiare qualcosa. In alternativa, parla bene di donne che malate non sono da un punto di vista fisico ma malate immaginarie, quelle che hanno sempre da lamentarsi di tutto, come un mantra. E allora mi son chiesta due cose: perché mi frequenta, è stata ovviamente la prima. Che cos’ho che non va? Mi sento piuttosto bene in molti sensi, e quanto al resto sì, forse da un punto di vista estetico sono fuori concorso, ma chissenefrega.  Seconda domanda: non è che, come la mia mamma, sto scivolando in una brutta deriva di persone che non sanno più  – non sono forse mai state – capaci di sentirsi felici per se stesse, ma soltanto per le disgrazie altrui. Nel dubbio, sospendo il giudizio.

Gloria Ghisi

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