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Ignazio Tarantino, ”Scrivere il mio libro è stato un corpo a corpo con la memoria”

''Scrivere il passato è servito a mettere a posto alcuni aspetti irrisolti, almeno in parte''. Così Ignazio Tarantino, autore del romanzo ''Sto bene. È solo la fine del mondo'', con cui ha firmato un esordio che ha ricevuto recensioni entusiaste dalla critica, commenta quello che per lui ha rappresentato la scrittura. Al termine dell'articolo, un estratto del libro in anteprima...
L’autore ci racconta la sua storia e ci presenta “Sto bene. È solo la fine del mondo”, un esordio letterario osannato dalla critica

MILANO – “Scrivere il passato è servito a mettere a posto alcuni aspetti irrisolti, almeno in parte”. Così Ignazio Tarantino, autore del romanzo “Sto bene. È solo la fine del mondo”, con cui ha firmato un esordio che ha ricevuto recensioni entusiaste dalla critica, commenta quello che per lui ha rappresentato la scrittura. In questo libro infatti Tarantino racconta una storia ispirata alla sua biografia, quella di Giuliano, ultimo nato di una numerosa famiglia meridionale spinto dalla madre ad abbracciare la fede della Società – l’allusione alla sua esperienza tra i Testimoni di Geova è chiara. Donna mite costretta a sopportare gli sfoghi d’ira del marito, Assunta trova pace quando ascolta l’annuncio dell’imminente fine del mondo e della promessa di salvezza per gli “eletti”: a quel punto fa della predicazione la sua vita. Per Giuliano inizia così la lotta interiore tra il desiderio di assecondare le imposizioni e le manie religiose della madre e il tormento che gli procura una vita di privazioni incomprensibili. Con l’adolescenza, però, prevarrà il suo bisogno di affermare la propria identità.

Com’è maturata la decisione di scrivere un libro che, pur non essendo un’autobiografia, trae la materia del racconto dalla sua personale esperienza? Ci può parlare del valore della scrittura come percorso terapeutico, come strumento di riconciliazione con se stessi e il proprio passato?
Mi esercito alla scrittura praticamente da quando avevo 15 anni. Inizialmente in maniera inconsapevole. Prendevo brani da opere famose e li trasformavo nel racconto delle mie giornate. Era una specie di diario il cui codice  segreto consisteva nel  cambiamento di stile prendendo spunto da brani delle grandi opere letterarie, Dante, Petrarca, Boccaccio, Alfieri, Ariosto e così via. Successivamente quella specie di gioco è diventato un preciso intento di fare esercizi di stile. Dopo anni di sperimentazioni ho pensato di essere pronto a scrivere qualcosa di pubblicabile ma nessuna delle cose che scrivevo mi convinceva pienamente. Infine mi sono reso conto che la storia giusta ce l’avevo sempre avuta con me. All’inizio si è trattato della necessità di fare i conti col passato. Per un momento ho abbandonato ogni intento letterario e mi sono semplicemente raccontato, senza filtri stilistici. Si è trattato di un vero corpo a corpo con la mia memoria. Ho tirato fuori ricordi che ero convinto di aver cancellato ma che invece erano lì, dentro di me, in stato latente ma non privi di influenze sul mio modo di essere e di confrontarmi col mondo. Scrivere il passato è servito a mettere a posto alcuni aspetti irrisolti, almeno in parte. Poi da quel primo scritto autobiografico, impossibile da rendere pubblico in quello stato, è nata pian piano la storia di Giuliano, arricchita di personaggi nuovi e scritta con una maggiore consapevolezza stilistica e narrativa.

Si aspettava recensioni tanto entusiaste da parte della stampa? Che effetto fa vedere il proprio libro, che è peraltro un romanzo di esordio, così apprezzato? Come vive questo momento?
Confesso che a un certo punto ho avuto la certezza di aver scritto qualcosa di buono, un testo che potesse essere presentato agli editori ma mai mi sarei aspettato questa bella accoglienza. Vivo comunque tutto questo con grande calma e serenità, forse perché ormai vedo il mio romanzo come qualcosa di staccato da me, che deve fare la sua strada.

Il suo libro è stato accostato dalla critica a grandi nomi della letteratura. Quali sono in particolare i suoi riferimenti letterari, gli autori che ama, che crede abbiano potuto ispirarla o in qualche modo guidarla nella scrittura?
Qui servirebbe un elenco infinito e sicuramente rischierei di dimenticare anche autori che sono stati importantissimi per la mia formazione ma che al momento di rispondere a una domanda come questa sfuggono. Come ho già detto, ho sperimentato molto prima di sentirmi pronto alla pubblicazione di un romanzo. Di partenza ci sono i classici, credo per la lezione di semplicità che però maschera una complessità che si scopre solo con diversi livelli di lettura. Partendo da quelle basi, negli anni ho avuto la fase kafkiana, poi pirandelliana, successivamente c’è stato il momento joyciano e carmelobeniano, a seguire quello in cui guardavo a Malaparte e Cèline passando per Bukowski. Altri autori non hanno forse lasciato un segno evidente nella mia scrittura ma sono serviti a formarmi, tra questi Calvino, Pavese, Gadda, Tabucchi, Tondelli. Però quelli verso cui ho un debito più diretto, almeno per quanto riguarda questo romanzo, sono Henry Roth, Elias Canetti, Bruno Schulz, Giuseppe Berto. Ce ne sono molti altri ma fra tutti credo di poter individuare in Pier Paolo Pasolini l’autore più amato, inarrivabile e comunque un modello di come si possa fare della propria produzione una continua ricerca. Penso, per esempio, alla sua raccolta di scritti “Alì dagli occhi azzurri”,  che ogni scrittore che si sta formando dovrebbe leggere.

Il protagonista, Giuliano, alla fine riuscirà a staccarsi dalla Società, da un modo opprimente e fanatico di vivere la religione, viaggiando, incontrando nuovi maestri, studiando, leggendo libri. Anche per lei le letture sono state fondamentali alleati nel percorso di maturazione personale? C’è qualche libro cui è particolarmente legato?

Nei libri ho trovato spesso l’ispirazione, lo slancio in momenti cruciali della mia vita. Ce ne sono davvero tanti a cui sono molto legato. Tre in particolare sono stati molto importanti proprio nel periodo di svolta, quando avevo 20 anni: “De beata vita” di Sant’agostino per la riflessione sulla possibilità di conseguire la felicità attraverso la conoscenza e la filosofia; “Illusioni perdute” di Balzac che con le vicende di Lucien de Rubempré mi convinse a partire per conoscere il mondo; “Tempo di uccidere” di Ennio Flaiano che mi lasciò un’impressione talmente forte da segnare il passaggio da una scrittura ingenua e inconsapevole a quella fatta di dedizione e lavoro.

Crede che se non avesse affrontato l’esperienza personale che ha alle spalle avrebbe comunque sentito la spinta a scrivere?
Penso che sia servito a posticipare la manifestazione di una predisposizione che ho avuto sin da bambino.

Ha già in mente qualche idea per un nuovo libro?
Sì. Ce l’ho già tutta scritta in testa dovrei soltanto mettermi davanti al pc.

24 giugno 2013

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