“I beati anni del castigo”, un dark academia al femminile

15 Dicembre 2025

Un collegio svizzero, un’amicizia ossessiva, il lato oscuro dell’adolescenza: “I beati anni del castigo” di Fleur Jaeggy è un classico breve e disturbante.

“I beati anni del castigo”, un dark academia al femminile

I beati anni del castigo” è uno di quei romanzi che sembrano minuscoli, ma che restano addosso come un odore. Poco più di cento pagine, un collegio femminile nell’Appenzell svizzero, una voce narrante senza nome che ripensa alla propria adolescenza con una lucidità quasi crudele. Pubblicato nel 1989, il libro ha consacrato Fleur Jaeggy vincendo il Premio Bagutta nel 1990 e diventando, negli anni, un piccolo cult internazionale, tradotto come “Sweet Days of Discipline”.

L’ambientazione è apparentemente innocua: un istituto per ragazze “per bene”, con le montagne intorno, il lago, la neve, i refettori silenziosi. Adelphi parla di un’atmosfera “di idillio e cattività”, formula perfetta per descrivere il paradosso di queste pagine: tutto è in ordine, tutto è protetto, e proprio per questo tutto è potenzialmente spaventoso.

L’inizio: l’arrivo di Frédérique e l’innesco del desiderio

La storia è ambientata negli anni Cinquanta. La narratrice, interna dodicenne in collegio, è una figura diafana, educata a distanza da una madre che vive in Brasile e da un padre di cui si percepisce appena l’ombra, rintanato in un albergo di qualche città svizzera. Le decisioni fondamentali della sua vita – iscrizione al collegio, compagne di stanza, vacanze – arrivano per lettera, come ordini impersonali.

Nel microcosmo regolato da campanelle, studi, passeggiate, liturgie scolastiche, l’evento che rompe la monotonia è l’arrivo di una “nuova”, Frédérique. Bellissima, impeccabile, severa, sembra – dice la quarta – “aver già vissuto tutto”. La narratrice ne resta ipnotizzata: la osserva da lontano, la spia nei gesti minimi, nelle rigidità, nei silenzi. Il loro rapporto nasce su un crinale ambiguo: ammirazione, amicizia, desiderio, rivalità.

Non succede quasi nulla, se pensiamo in termini di azione: qualche passeggiata, punizioni, episodi di disciplina, brevi fughe o trasgressioni minime. Eppure, come nota un critico, in questo romanzo “gli eventi hanno poca importanza; contano le emozioni che scatenano”. Il collegio è una camera di risonanza in cui ogni gesto – una frase mal detta, una porta chiusa, un voto, una punizione – è amplificato fino a diventare destino.

L’altra protagonista: la narratrice senza nome

La scelta di lasciare anonima la voce narrante non è un capriccio. È un modo per farne un fantasma, un punto di vista mobile, quasi un’ombra che si stacca dal suo stesso corpo per osservare se stessa e le altre. Alcune recensioni parlano esplicitamente di narratrice “unreliable”, poco affidabile, proprio perché la sua freddezza emotiva rende incerta la distinzione tra ciò che è accaduto davvero e ciò che lei ricorda o immagina.

Guardiamo il collegio attraverso i suoi occhi, ma è come se lo vedessimo dalla fine del tempo: l’adulta che racconta commenta, giudica, riposiziona. L’effetto è quello di un memoir distorto, in cui la memoria diventa una lente deformante. Fleur Jaeggy ha effettivamente frequentato collegi svizzeri, e il libro rielabora quel materiale autobiografico trasformandolo in una sorta di romanzo di formazione rovesciato, come nota anche ItaliaLibri.

Amicizia, ossessione, disciplina

Dark academia in miniatura

Chi ama l’immaginario “dark academia” trova in “I beati anni del castigo” quasi un testo fondativo: collegio d’élite, rituali, uniforme, studi come disciplina più morale che intellettuale, una protagonista che cerca se stessa attraverso un legame totalizzante con una compagna.

Critici inglesi parlano di “melancholic mood” e di un’aria inquieta, come se tutte le ragazze fossero “mutilate spiritualmente”. Le giornate scorrono in un “fiume lento e monotono”, racconta una recensione italiana, dentro argini di lezioni, pasti, ispezioni, preghiere. È un mondo chiuso, protetto e al tempo stesso ostile, dove ogni differenza – di classe sociale, provenienza, lingua – pesa enormemente.

In questo paesaggio, l’ossessione per Frédérique diventa una forma di resistenza alla disgregazione. La narratrice vuole “conquistarla”, dominarla e insieme esserne dominata. Il Guardian, parlando dell’edizione inglese, definisce il romanzo “una storia di amicizia centrata sul desiderio della narratrice per la sua compagna di scuola”, in cui l’attrazione tra ragazze è insieme innocente e minacciosa.

Perfezione, follia e queer desire

La figura di Frédérique è costruita come un’icona di perfezione: disciplina, controllo, duro lavoro, una sorta di serietà adulta che fa a pezzi il candore delle altre educande. Ma il libro mostra lentamente le crepe: sotto la superficie rigida si intravede qualcosa di “quieto e terribile”, una zona grigia fra ordine e disordine mentale.

Il legame fra le due ragazze ha una tensione queer dichiarata: non sfocia in erotismo esplicito, ma è un’ossessione che passa attraverso lo sguardo, l’imitazione, la volontà di annullarsi nell’altra. L’edizione inglese è stata presentata come “una raffinatissima e inquietante rappresentazione di una ossessione queer”, scritta in una prosa “di vetro tagliato”.

Jaeggy non psicologizza, lascia che le dinamiche emergano da piccoli gesti: un libro prestato e non restituito, un sorriso trattenuto, una crudeltà improvvisa, un atto di auto–sabotaggio. Il desiderio è al tempo stesso forza vitale e forma di autodistruzione: spinge la narratrice a cercare Frédérique, ma la conduce anche verso una sorta di emulazione del suo gelo.

La scrittura di Fleur Jaeggy

Prosa limpida, nervosa, piena di silenzi

Una delle ragioni per cui “I beati anni del castigo” è diventato un libro di culto sta nello stile. Chi lo legge per la prima volta resta spesso spiazzato: frasi brevi, tagli netti, pochissimi dialoghi, punteggiatura controllata, una freddezza che confina con il numinoso.

La pagina sembra quasi non avere appigli emotivi, e invece, come sottolinea un commentatore, “la leggerezza della prosa contiene una corrente sotterranea molto scura; è lì che si concentra la forza del libro”. Altri parlano di routine del collegio raccontata con “una qualità maniacale e sbilanciata”, in cui i dettagli minimi si caricano di significati instabili; la trama è fragile, ciò che realmente conta è la rete di sentimenti che si genera.

Non ci sono quasi mai virgolette a segnare i dialoghi, scelta che accentua l’impressione di monologo interiore e di memoria che ingloba tutto. Il tempo verbale ondeggia, l’adulta e l’adolescente si sovrappongono. È come guardare una fotografia sotto vetro: si vedono i contorni, ma quello che fa male è il riflesso di chi sta guardando.

Un romanzo breve non è un romanzo minore

Con le sue 107 pagine, “I beati anni del castigo” rientra spesso nelle liste dei “romanzi sotto le 200 pagine che bisogna leggere almeno una volta nella vita”. Lit Hub lo definisce “un romanzo praticamente perfetto” e uno dei migliori campus novel contemporanei; ogni riga è “gelida nel suo calcolo, eppure l’insieme brucia”.

La brevità, nel caso di Jaeggy, non è economia ma metodo: eliminando tutto ciò che è superfluo – digressioni, spiegazioni, contesto storico – l’autrice lascia solo il nucleo duro dell’esperienza. Proprio per questo il libro si presta a più letture: la prima è un’immersione nell’atmosfera, le successive fanno emergere piccole linee tematiche che alla prima occhiata sfuggono.

Non stupisce che Iosif Brodskij abbia parlato di una scrittura “intinta nell’inchiostro azzurro dell’adolescenza”, capace di trasformare la materia apparentemente minuta di un collegio in una superstite mitologia personale.

Tra premio Bagutta, teatro e culto internazionale

Il riconoscimento critico

“I beati anni del castigo” non è rimasto a lungo un libro di nicchia. In Italia è stato subito accolto con entusiasmo, fino alla vittoria del Bagutta, uno dei premi letterari più antichi e prestigiosi. Qualche anno dopo Luca Ronconi ne ha tratto una pièce teatrale, segno che quel mondo fatto di silenzi, sguardi e corridoi sembrava destinato a uscire dalla pagina e occupare lo spazio fisico della scena.

All’estero, la traduzione di Tim Parks ha contribuito a costruire il mito di Jaeggy come “writer’s writer”: un’autrice adorata da chi scrive, spesso nominata come influenza silenziosa, rispettata per la capacità di condensare in poche righe una quantità di tensione emotiva che molti romanzi lunghi non raggiungono. L’edizione inglese è comparsa in classifiche di fine anno e in liste di “libri da riscoprire”, dal White Review a vari magazine letterari.

Un classico oscuro dell’adolescenza

“I beati anni del castigo” colpisce nel suo essere tanto distante dai romanzi di collegio contemporanei, spesso più loquaci, ironici, espliciti; Jaeggy sceglie di non spiegare mai fino in fondo: non sapremo esattamente cosa succede a Frédérique, non avremo dettagli sulla vita adulta della narratrice, non ci sarà una lezione di morale.

La “terra di nessuno fra perfezione e follia” evocata dalla sinossi è il vero cuore del libro. L’adolescenza, qui, non è solo un’età difficile: è un territorio metafisico, dove tutto è ancora possibile e proprio per questo ogni gesto ha il peso di un destino. Il collegio di Jaeggy è impalpabile, un’idea, un luogo di formazione in cui ci siamo sentiti, almeno una volta, prigionieri di regole incomprensibili e di desideri che non sapevamo nominare.

Perché leggere “I beati anni del castigo”

Perché parla di adolescenza senza nostalgia, perché mostra quanto possa essere violenta la ricerca di un modello a cui somigliare e quanto sia facile trasformare l’ammirazione in forma di autoannullamento.

La sua forza sta nel tenere insieme opposti: è un libro minuscolo e ampissimo, durissimo e fragilissimo, ambientato in stanze chiuse ma pieno di abissi. Si legge in poche ore, ma lascia la sensazione di aver passato molto più tempo in compagnia di quelle ragazze, di aver condiviso con loro qualcosa di irrisolto.

Per chi ama le storie di collegio, l’estetica dark academia, i romanzi che lavorano più sul non detto che sul detto, “I beati anni del castigo” è una tappa quasi obbligata. Ma è soprattutto una lettura preziosa per chi, a distanza di anni, sente ancora risuonare quel posto indefinibile in cui l’infanzia finisce e non si è ancora trovata una forma adulta.

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