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Giorgio Fontana (finalista Campiello), ”Nel mio libro racconto la Resistenza nelle fabbriche di Saronno”

Il giovane Giorgio Fontana è stato selezionato come autore per la cinquina finalista grazie alla suo ultimo romanzo ''Morte di un uomo felice'': quasi 300 pagine che raccontato un periodo difficile dell'Italia...

A settembre è attesa la finalissima del premio Campiello, premio letterario tra i più prestigiosi in Italia. Il 13, infatti, in una splendida cornice veneziana, al Gran Teatro La Fenice, verrà decretato il vincitore della 52esima edizione. Tra i finalisti, Giorgio Fontana che ci parla del suo romanzo ”Morte di un uomo felice”

MILANO – Il giovane Giorgio Fontana è stato selezionato come autore per la cinquina finalista grazie alla suo ultimo romanzo ”Morte di un uomo felice”: quasi 300 pagine che raccontato il terrorismo italiano agli inizi degli anni ’80 e  la Resistena delle fabbriche di Saronno, città che dà in natali all’autore. Un racconto non certo facile, riuscito – come ci spiega anche nell’intervista – anche grazie ai racconti del nonno materno che per un breve periodo partecipò agli eventi.

MORTE DI UN UOMO FELICE – Milano, estate 1981: siamo nella fase più tarda, e più feroce, della stagione terroristica in Italia. Non ancora quarantenne, Giacomo Colnaghi a Milano è un magistrato sulla linea del fronte. Coordinando un piccolo gruppo di inquirenti, indaga da tempo sulle attività di una nuova banda armata, responsabile dell’assassinio di un politico democristiano. Il dubbio e l’inquietudine lo accompagnano da sempre. Egli è intensamente cattolico, ma di una religiosità intima e tragica. È di umili origini, ma convinto che la sua riuscita personale sia la prova di vivere in una società aperta. È sposato con figli, ma i rapporti con la famiglia sono distanti e sofferti. Ha due amici carissimi, con i quali incrocia schermaglie polemiche, ama le ore incerte, le periferie, il calcio, gli incontri nelle osterie. Dall’inquietudine è avvolto anche il ricordo del padre Ernesto, che lo lasciò bambino morendo in un’azione partigiana. Quel padre che la famiglia cattolica conformista non potè mai perdonare per la sua ribellione all’ordine, la cui storia eroica Colnaghi ha sempre inseguito, per sapere, e per trattenere quell’unica persona che ha forse amato davvero, pur senza conoscerla. L’inchiesta che svolge è complessa e articolata, tra uffici di procura e covi criminali, tra interrogatori e appostamenti, e andrà a buon fine. Ma la sua coscienza aggiunge alla caccia all’uomo una corsa per capire le ragioni profonde, l’origine delle ferite che stanno attraversando il Paese…

Giovanissimo, finalista del premio Campiello, uno tra i più prestigiosi in Italia. Come si sente?

Emozionato, ma anche sereno. So che sembra un luogo comune, ma non me l’aspettavo; quindi cerco di vivere la cosa con la massima tranquillità.

“Morte di un uomo felice” è l’ultimo della lista, ma nel suo curriculum ci sono già molti romanzi di successo. Cosa significa quindi partecipare a questo premio?

Non direi che nel mio curriculum ci sono ‘molti romanzi di successo’: certo il ‘successo’ è un concetto abbastanza flessibile, ma dubito fortemente che i miei libri possano appartenere a questa categoria. In ogni caso, partecipare al Campiello è — mettiamola così — una bella pacca sulla spalla.

Chi è il magistrato Colnaghi? Che ruolo ha nel libro e qual è il messaggio finale che deve catturare il lettore?

Il magistrato Colnaghi è tante cose: un giudice impegnato da tempo in inchieste contro le formazioni lottarmatiste milanesi, un padre con sentimenti irrisolti verso i figli, un marito che cerca di ravvivare la sua relazione con la moglie, ma soprattutto il figlio di suo padre — un partigiano morto durante la Resistenza, che gli ha consegnato un’eredità etica e sentimentale di grande valore. Tutto il dialogo a distanza fra padre e figlio è cruciale nel libro; è il vero cuore del romanzo. Ma non scrivo per dare ‘messaggi finali’. Scrivo per raccontare storie.

Nel suo libro si alternano storie più recenti con avvenimenti  del passato. Come ad esempio la Resistenza nelle fabbriche di Saronno, città che le da le origini. Come mai ha voluto raccontare questo avvenimento?

Era da tanto tempo che volevo raccontare il periodo della Resistenza nelle fabbriche del saronnese, e ho cercato un modo originale per inserirlo nell’economia del romanzo. Credo abbiano influito anche i racconti di mio nonno materno — che vi partecipò brevemente. Anzi, una scena del romanzo ricalca quasi per intero un fatto accaduto realmente: il ragazzo che viene tenuto fermo in osteria da un nazista con una pistola puntata alla tempia, e poi riesce a scappare, è mio nonno. O la sua versione letteraria.

Il tema della giustizia è centrale nel suo romanzo. Ha potuto studiare quella degli anni scorsi e, da trentenne, sta vivendo quella di adesso. Cosa è cambiato, se è cambiato qualcosa?

Non saprei: non sono un esperto del tema. Preferisco che opinioni così delicate vengano espresse da uno storico; rischierei solo di dire banalità.

Lei è tra i pochi trentenni che ha affrontato questo periodo storico. Perché ha fatto questa scelta?

Mi trovo sempre in difficoltà nello spiegare i ‘perché’ di una scelta narrativa: un personaggio nasce in modo abbastanza irrazionale, e non ci si siede alla scrivania pensando ‘Oh, adesso scrivo un romanzo che parla di questo o quell’altro’. So che può sembrare un modo di schivare la domanda, ma è da tanto che ci rifletto: indagare le giustificazioni o i motivi alle spalle di un romanzo, della nascita di un’idea, è rischioso. C’è una componente di assoluta libertà che non ha motivi particolari — se non l’interesse, il fascino, la seduzione dell’idea.

23 giugno 2014

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